I telefonini degli automobilisti possono contribuire alla sicurezza dei ponti fornendo preziose informazioni sullo stato di salute delle strutture. Lo sostiene una ricerca condotta da un team del MIT di Boston (il Massachussets Institute of Technology) pubblicata qualche mese fa su una delle principali riviste scientifiche internazionali, i “proceedings” dell’IEEE (“The world's largest technical professional organization for the advancement of technology”).
La ricerca condotta da Thomas Matarazzo e firmata fra gli altri dagli italiani Carlo Ratti e Paolo Santi, dimostra come usando gli accelerometri presenti nei telefoni cellulari più evoluti e ormai diffusissimi, gli smartphone, si possano misurare le vibrazioni dei ponti, e da queste capire il loro stato di "salute strutturale”.
Secondo i ricercatori, si intravede “una grande opportunità” nella coincidenza di tre fattori: le infrastrutture delle città invecchiano; aumenta il bisogno di innovazione dei sistemi di monitoraggio; e nel settore delle tecnologie di consumo, in particolare i telefonini, è in atto una evoluzione tecnologica rapidissima.
Gli smartphone infatti sono dotati di tre accelerometri, ovvero sistemi micro elettro meccanici, in grado di misurare lo spostamento del telefonino sui tre assi, altezza, lunghezza e profondità, e di registrare una serie di altri dati più o meno importanti.
L’opportunità, secondo i ricercatori del MIT, consiste nel creare una rete di sensori mobili per il monitoraggio dei ponti, usando appunto, i dati raccolti dagli accelerometri dei telefonini degli automobilisti. Rispetto ad una rete fissa di sensori, una rete mobile fatta in questo modo presenta diversi vantaggi: tra gli altri, è molto più pervasiva; ed è infinitamente più economica.
Questa ipotesi è stata verificata con dei test fatti su un ponte di Boston, l’Harvard Bridge, misurando i dati forniti da due iPhone che erano a bordo di due automobili in movimento. I risultati sono stati molto incoraggianti, anche se si possono considerare ancora definitivi.
L’antefatto: due app per le buche e la sicurezza stradale
La ricerca era stata preceduta da due test nei quali si adottava lo stesso duplice approccio: il crowdsourcing (cioé la partecipazione di una folla, crowd, per estrarre informazioni utili); e gli smartphone. I test erano stati condotti entrambi a Boston, dove ha sede il MIT e dove operano i ricercatori del Senseable City Lab diretto da Carlo Ratti.
La premessa scientifica è che “i dati foniti da sensori mobili contengono una risoluzione spaziale migliore (“denser”) se paragonati a quelli ottenuti attraverso un rete, di numero equivalente, di sensori fissi”. Da qui discende il fatto che nell’era digitale, data la grandissima diffusione degli smartphone nelle aree urbane maggiormente popolate, si è infinitamente ridotto il bisogno di procurarsi sensori per misurare alcuni fenomeni cittadini.
Come il traffico, che conosciamo in tempo reale, per esempio su Google Maps e Waze, tramite dati forniti dagli smartphone degli automobilisti. Quali altri dati possono essere utilizzati con un approccio simile? Già nel 2012 il sindaco di Boston ha deciso di adottare questo schema per provare a monitorare lo stato delle infrastrutture urbane e migliorare la sicurezza dei cittadini. Il primo progetto si chiama Street Bump ed è un tentativo di monitorare lo stato delle strade, individuando esattamente buche e dossi, con l’obiettivo di prevenire gli incidenti e ridurre i costi di manutenzione.
In questo caso sono stati utilizzati i dati forniti autonomamente dai telefonini degli automobilisti, e in particolare dagli accelerometri e dal GPS (il sistema satellitare che individua la posizione esatta). Secondo, sebbene il progetto non sia riuscito a diventare “il cacciatore di buche stradali” che molti speravano (si è rivelato più complicato del previsto distinguere una buca), “ha dimostrato che i big data possono fornire un servizio importante ad una città” e in futuro questi dati “saranno utili per determinare le condizioni del manto stradale”.
Nel 2015 la città di Boston ha stretto una partnership con la task force Vision Zero (che punta ad azzerare le vittime di incidenti stradali entro il 20230) e con la società Cambridge Mobile Telematics, per lanciare la app Boston’s Safest Driver.
La app offre una valutazione personalizzata di ciascun guidatore misurandone il comportamento, le accelerazioni, le frenate, le infrazioni stradali e infine le distrazioni causate dal telefonino. Tutti questi dati producono un punteggio oggettivo che consente a ciascun automobilista di riflettere sulle rispettive abitudini di guida; e poggia un un gioco a premi che punta, ogni settimana, a premiare il guidatore migliore e anche chi ha fatto più progressi.
La app ha registrato finora circa 200 mila “viaggi”, è utilizzata in media da poco meno di duemila persone, quindi pochine, ma i dati indicano che ha generato una forte riduzione della velocità e delle distrazioni in chi la usa.
L’approccio fra crowsourcing e big data
Questi due esperimenti sono quelli che hanno consentito ai ricercatori del MIT di Boston di provare a trasferire questo approccio (“i big data come uno strumento per risolvere i problemi delle città”) al tema della sicurezza dei ponti. Che evidentemente non è affatto un problema solo italiano. “Lo stato delle infrastrutture degli Stati Uniti” si legge nell’introduzione della ricerca, “può essere descritto con un termine, expiring”.
Stanno morendo. Dati: “Circa il 40 per cento dei ponti hanno più di 50 anni , ogni giorno sono attraversati da 188 milioni di americani e il costo per metterli in sicurezza tutti è stimato in 123 miliardi di dollari”. Anche negli Usa, come da noi, i soldi per la manutenzione gli enti locali non li hanno, e i protocolli per le ispezioni sono troppo vaghi e spesso non prevedono sensori e altri strumenti tecnologici per individuare possibili danni nelle strutture. Inoltre lo strumento principale delle ispezioni ai ponti, è ancora oggi l’osservazione di una struttura, “ma alcune microfratture possono essere fuori dalla portata di un occhio umano”. Risultato: il rischio di diagnosi sbagliate è alto. Con i risultati che abbiamo appena visto a Genova.
La soluzione sarebbe quella di fare ispezioni più frequenti ma non è praticabile per un fatto di costi. Per questo il MIT propone di utilizzare per il monitoraggio “la dozzina di sensori presenti nei nostri smartphone” i quali possono collettivamente “generare una quantità di dati in grado di darci degli indicatori utili per determinare lo stato di salute di un ponte”. Già oggi alcuni dei ponti più importanti del mondo adottano un sistema di sensori.
Ma si tratta di sensori fissi: il secondo ponte sul Bosforo (1992), in Turchia, ne ha 28; il Vincent Thomas (2003), a Los Angeles, ne ha 26; il Golden Gate (2009), icona di San Francisco, addirittura 320; e il Guangzhou New TV Tower (2009), in China, oltre 600. Ma i sensori fissi, sostengono i ricercatori del MIT, per quanto efficaci, presentano diversi problemi: il primo è che devono essere progettati, installati e manutenuti da personale qualificato e tutto ciò è funzione del budget disponibile. L’efficacia del sistema dipende dal numero dei sensori ma i costi alla fine risultano proibitivi. “E quindi questo approccio è possibile solo per un ristretto numero di ponti strategici”.
Che fare per gli altri?
Il test con due iPhone sul ponte di Harvard
Da qui nasce l’idea di creare una rete, a bassissimo costo, fatta da migliaia di sensori mobili in grado di misurare le vibrazioni di un ponte anche stando dentro un veicolo in movimento. E sebbene ci siano ancora problemi di misurazione e di efficacia, i ricercatori lo ammettono chiaramente, “un sensore mobile è in grado di fornire informazioni spaziali paragonabili a quelle di 120 sensori fissi”.
Da qui discende la considerazione che già oggi ogni giorno milioni di telefonini fanno l’esame delle infrastrutture di una città, solo che questi dati non vengono utilizzati da nessuno (gli unici dati che vengono usati sono quelli che indicano lo stato del traffico).
Si possono usare per determinare lo stato di un ponte? Il test è stato condotto sul ponte di Harvard, che è lungo 660 metri, e collega Boston e Cambridge passando sopra il fiume Charles. Lo attraversano in media trentamila veicoli al giorno. Per il test è stata creata una rete di undici accelerometri fissi ed i dati raccolti sono stati messi a confronto con quelli generati da due vecchi iPhone (un 5s e un 6) che erano a bordo di altrettante auto di media cilindrata.
Sono state create le condizioni considerate ideali: gli smartphone erano disposti sul cruscotto dell’auto, la velocità dei veicoli erano moderata e il tutto si è svolto nell’ora di punta (con più vetture aumentano le vibrazioni). Per 42 volte i veicoli sono andati avanti e indietro mentre la app Sensor Play registrava i dati che riceveva dal ponte.
Risultato: i dati generati dagli smartphone sono paragonabili a quelli registrati dalla rete di sensori fissi. Ovviamente questo approccio funziona quando i dati presi in considerazione sono moltissimi: solo quando si entra in una dimensione di “big data” infatti, gli inevitabili falsi positivi e falsi negativi, che a volte uno smartphone può misurare (di solito per la scarsa qualità degli accelerometri presenti sugli smartphone), si annullano reciprocamente e il dato finale è molto simile a quello registrato da una rete di sensori fissi.
Morale, funziona ma si deve rinunciare alle ispezioni
La ricerca del MIT, insomma, dimostra che “i dati registrati da uno smartphone, presente su un veicolo in movimento, e opportunamente registrati e analizzati, contengono informazioni significative e solide su alcune delle frequenze modali di un ponte”. (L’analisi modale è lo studio del comportamento dinamico di una struttura quando viene sottoposta a vibrazione, in questo caso il passaggio dei veicoli).
Questo risultato, si legge nelle conclusioni pubblicate su IEEE, “conferma che le frequenze modali di un ponte possono essere individuate dagli smartphone” e che questi dati, “una volta aggregati, migliorano in precisione” fino a poter competere “con quelli raccolti da altri sensori”. Questo approccio, avvertono i ricercatori del MIT, non esclude affatto la necessità di proseguire con il metodo classico di monitoraggio dello stato di salute dei ponti, ovvero le ispezioni fatte sul posto da personale qualificato. Ma consente di avere un flusso di dati continuo e costante sulle condizioni di una struttura, che possono formare un archivio di riferimento il quale a sua volta può aiutare gli esperti a prendere le decisioni migliori.
Il futuro, inserire questa tecnologia nella app di Uber o di Waze?
Uno dei responsabili del progetto, come si è detto, è Carlo Ratti, da anni direttore del Senseable City Lab del MIT. DI quello che è appena accaduto a Genova dice: "Ricordo che uno dei grandi professori ingegneria strutturale del secolo scorso, Jacques Heyman, che insegnava a Cambridge, aveva una regola: diceva che nelle strutture in muratura, se una cosa sta in piedi 5 miniuti sta in piedi 500 anni perché vuol dire che c’è uno schema statico che funziona. Infatti sappiamo che il degrado del cemento e del calcestruzzo è di alcune centinaia di anni. Ma il ponte di Genova è diverso. E' stato uno dei primi al mondo fatto con questa tecnica nuova, chiamata precompressione, che ai tempi erano considerata una grande innovazione, ma si è successivamente scoperto che accorcia il ciclo di vita di una struttura a circa 50 anni. In uno stato critico non solo solo migliaia di ponti italiani, ma anche quasi tutti quelli americani realizzati nel secondo dopoguerra con tecniche simili".
A proposito delle possibili applicazioni della ricerca del MIT, Ratti disegna uno scenario molto suggestivo: "Con una rete di smartphone il costo del monitoraggio dei ponti è quasi gratis. Certo è come misurarsi la pressione dal medico, poi se si riscontrano anomalie occorre seguire un monitoraggio più preciso e approfondito. Ma intanto c'è un flusso di dati rilevanti e continui. Ora stiamo studiando di applicare il tutto al Golden Gate di San Francisco. La nostra ipotesi è che se domani Uber o Waze o Lyft dovessero inserire un sistema simile nella loro app improvvisamente in poche settimane avremmo una scansione completa dei ponti. Ma anche delle buche e lo stato dell’asfalto. Potrebbe essere una idea farlo anche a Roma se volessero...”.