Gli smartphone, diciamocelo, si assomigliano tutti. Con l'eccezione degli iPhone - che fanno campionato a sé e sono trend setter anche quando adottano soluzioni di design che di primo acchito hanno il fascino di una Fiat Duna - si fa fatica a distinguerli l'uno dall'altro.
Il notch, il foro singolo, il doppio foro, la fotocamera a scomparsa, sono soluzioni adottate di edizione in edizione e spesso prive di reale utilità per il cliente. Negli anni i grandi gruppi di questa industria - Samsung, Huawei, Bbk e Xiaomi - hanno schierato flotte di smartphone che differivano solo minimamente all'esterno e quasi in nulla nella componentistica.
Fotocamere sempre più performanti, processori sempre più veloci, ram sempre più potenti sembravano fine a se stessi, ma in realtà hanno contribuito a creare quella che oggi fa la vera differenza: la user experience. Tradotto: la comodità d'uso.
Maneggiare con una mano uno schermo da quasi sette pollici, riuscire a passare velocemente da un'applicazione all'altra o attivare in un attimo la fotocamera per cogliere un momento irripetibile sono diventate non tanto le funzioni, quanto le prestazioni che tutti ci attendiamo. E i cosiddetti flagship, i modelli migliori delle aziende, puntano su questo per conquistare una fascia di mercato tutt'altro che ristretta che è disponibile a spendere più di mille euro per un telefono. Così se su quasi tutti troviamo lo stesso processore, lo stesso sensore fotografico, la stessa ram, quello che differisce - e di molto - è il sistema operativo. O, meglio, la declinazione che ognuno fa di Android.
Ne sa qualcosa Huawei che, da quando è stato inibito l'utilizzo dei Google mobile services, ha dovuto mettere sul mercato flagship del livello del Mate 30, del P40 e del Mate Xs senza servizi essenziali per far funzionare alcune app e ha dovuto investire tre miliardi di dollari nello sviluppo di applicazioni per la gallery proprietaria Hms.
Ed è innegabile che la riduzione degli spazi per Huawei abbia dato incredibili margini di crescita a brand come quelli legati al colosso cinese Bbk: Oppo, realme e OnePlus su tutti.
Di fronte a una sfida simile non ci si poteva più presentare con una galleria di prodotti di fascia media e il gruppo ha saputo farsi trovare preparato. L'attesa più lunga è senza dubbio quella che c'è stata per la serie Find X2 di Oppo. Declinata in ben quattro modelli - si devono aggiungere il Pro, il Lite, il Neo e la Lamborghini edition - il suo arrivo sul mercato è stato ritardato dall'epidemia di coronavirus, ma dal 22 maggio la sfida tra i top di gamma si arricchisce di un nuovo competitor che - c'è da dirlo senza tema di smentite - ha caratteristiche formidabili. Il Find X2 Pro è senza dubbio destinato a essere la vera alternativa a device come l'S20 Ultra di Samsung, ma soprattutto il P40 di Huawei.
Il Find X2 Pro risponde a tutte le domande che negli anni sono state poste a Oppo e risolve tutti i limiti che erano stati rilevati. A partire dal sistema operativo ColorOS 7.1 che nei modelli precedenti rappresentava senza dubbio il limite maggiore proprio in quella user experience che è diventata fondamentale nella scelta di uno smartphone. Il comparto fotografico, poi, è in grado di competere con quelli di Huawei progettati con Leica e di far impallidire quelli di Samsung.
La fluidità di uno schermo luminoso e con un refresh rate a 120Hz, i 12 Giga di ram e il processore Snapdragon 865 lo fanno essere così veloce che serve un po' per abituarsi allo scorrimento delle schermate. X2 Lite è il modello che privilegia il rapporto qualità/prezzo mentre Neo è quasi una fotocopia di OnePlus 8, anche se con un processore meno potente. Del resto la catena di produzione è sempre quella di Bbk.
Il prezzo di lancio del Pro supera i 1.100 euro, ma le performance lo giustificano. Oppo ha però deciso di presidiare la fascia media con i 500 euro richiesti per il Lite e i 700 invece necessari per il Neo. Posizionamenti interessanti in un mercato che affronta la difficilissima prova della pandemia.