La didattica a distanza vista da vicino. Ibm e Cisco hanno hanno messo a disposizione strumenti e volontari per assistere 2000 scuole e 200.000 mila studenti durante il lockdown. Il progetto ha incontrando istituti già pronti e altri che non avevano neppure una connessione.
“Una pianificazione più attenta avrebbe fatto trovare il Paese più attrezzato, ma i grandi cambiamenti arrivano nei momenti di emergenza”, afferma Alessandra Santacroce, direttore relazioni istituzionali Ibm Italia e presidente Fondazione Ibm Italia. Le forzature del Covid-19 “innescheranno un cambiamento” di lungo periodo. A patto che il governo ascolti scuole e aziende per “ripensare i modelli formativi”. E sbloccare “le opere pubbliche a supporto della connettività”. Perché la “cultura digitale” è importante, ma “senza un collegamento a internet può fare poco”.
Com'è la didattica a distanza vista da vicino?
Ibm e Cisco hanno risposto a un appello urgente, all'indomani della chiusura delle scuole, per sostenerla. La nostra esperienza è molto positiva, sia come azienda sia nella capacità di fare sistema.
Com'è stata la risposta delle scuole?
C'è stata una grande partecipazione. Inizialmente un po' di scetticismo, ma poi si è instaurata una collaborazione con i nostri volontari, nella quale i professori hanno avuto un ruolo importante. Da parte di insegnanti e scuole c'è stata una capacità di abbracciare il cambiamento che ci ha sorpreso.
Per quali motivi sono stati contattati più spesso i volontari?
L'assistenza in remoto è stata la più varia. Da chi aveva problemi ad accendere il pc alla connessione che non funzionava fino alla possibilità di fare lezioni a distanza.
Più in generale, quali sono state le maggiori criticità incontrate sul campo?
Sono state soprattutto tre. Prima di tutto il digital gap e la diversa propensione all'utilizzo delle tecnologie, non solo come ritardo digitale ma anche come tema culturale. La seconda riguarda la connettività: il fatto che non ci sia omogeneità ha reso più complesso avere a bordo scuole di tutto il territorio nazionale. E poi c'è la disponibilità di device. Se alcune famiglie ne sono sprovviste, c'è un chiaro problema di accesso.
Pesa di più l'assenza di una cultura digitale o la disponibilità degli strumenti?
L'approccio culturale è determinante, ma in alcune scuole e famiglie non c'è neppure un collegamento internet. E lì la cultura può fare poco. In generale, la cultura è stato un elemento abilitante, ma in termini di equità e inclusione la connettività è decisiva.
C'è voluta una pandemia per mettere al centro scuola e digitale. Non ci si poteva pensare prima?
Nella storia, spesso i grandi cambiamenti sono stati dettati dall'emergenza. Certo, il gap digitale c'è e colmarlo dovrebbe essere una priorità in tema di investimenti, iniziative e formazione. Quindi no, non avrei voluto che un'epidemia ci portasse a fare riflessioni di questo tipo. Una pianificazione più attenta ci avrebbe fatto trovare più attrezzati, ma non è il momento di evidenziare colpe. Se in questa emergenza c'è da vedere qualcosa di positivo, è la capacità di innescare un cambiamento.
Quindi pensa che questa didattica a distanza forzata non sia solo una fiammata...
Credo che avrà un impatto di lungo periodo. Di sicuro abbiamo visto che il digitale serve e non si può ignorare. Serve per fare le cose di tutti i giorni. Lavorando in emergenza abbiamo creato le basi per un'accelerazione futura. Abbiamo raccolto risposte positive e best practice che porteranno una spinta dal basso verso un nuovo modello di istruzione e didattica. Spero che il patrimonio delle scuole venga condiviso a livello istituzionale. Mi auguro che il Miur abbia la volontà di incontrare scuole e aziende per raccogliere suggerimenti e capire cosa ha funzionato meglio. Sarebbe utile per mettere a punto un sistema di didattica che sia un mix con quello tradizionale, integrando nuove modalità e competenze.
Pensa che il percorso verso nuovi modelli sia spinto soprattutto dal basso (dalle scuole) o guidato dall'alto?
È un mix. Decisiva sarà la spinta dal basso perché le scuole portino il proprio punto di vista. Ascoltare le esperienze, soprattutto degli insegnanti, è fondamentale. Ma ci deve essere sempre un coordinamento a livello centrale.
L'utilizzo stesso di strumenti digitali è, già di per sé, educazione digitale?
Il digitale è un strumento fondamentale per imparare meglio e offrire spunti che non è possibile avere con metodi tradizionali. Ma il punto fondamentale non è la tecnologia quanto la capacità di saperla gestire. Quello che conta davvero è la formazione al digitale, sia per i giovani che per chi è già nel mercato del lavoro. Guardando oltre l'emergenza, vanno quindi ripensati i modelli formativi.
Come se li immagina?
L'aspetto saliente è la contaminazione. Una lezione di latino o di letteratura, fatta in digitale, può proporre in diretta l'esperienza di un'opera o la visione di un quadro. Il digitale aiuta la contaminazione tra i saperi e va oltre leggere un libro. In questi giorni, però, pur essendoci state alcune sperimentazioni, la priorità è stata completare il programma scolastico.
Qual è, invece, una misura da adottare subito per spingere il digitale Italia?
Nell'immediato (e mi risulta si stia andando in questa direzione), la priorità è lo sblocco dei cantieri per la fibra e delle opere pubbliche a supporto della connettività. È una cosa da fare velocemente, in una fase in cui l'emergenza lo richiede.