“Sono definitivamente assente”. Trent'anni fa, in una scena de Le Comiche, Renato Pozzetto provava a vendere una bara con segreteria telefonica incorporata. Al di là dello humor nero, la questione è seria: tra social network e intelligenza artificiale, è sempre più probabile che la nostra voce ci sopravviva. Pezzi consistenti della nostra eredità, ormai, non si toccano più. Eppure, si continua a badare molto all'eredità di quadri e armadi e poco a quella dei nostri dati. Una cosa cui bisognerebbe pensare per tempo, visto che non si può ancora dire: “Ehi Siri, sono morto”.
Un account è per sempre?
Il post mortem è stato discusso durante il meeting annuale dell'American Association for the Advancement of Science. “C'è un difetto significativo di progettazione nel modo in cui stiamo affrontando il fenomeno dell'aldilà digitale, con implicazioni globali”, ha spiegato Faheem Hussain, professore della Arizona State University. Per Hussain, il cui intervento è stato riportato da Geekwire.com e Financial Times, si discute molto di sicurezza dei dati e privacy ma “nessuno vuole parlare della morte” e del destino delle nostre informazioni. Se qualcuno mettesse le mani su un profilo di un defunto, potrebbe esserci un eterno “falso me” che vive sui social network, che “accumula dati”, “fa colloqui di lavoro su LinkedIn” o “parla con i miei familiari”. Un “io” fasullo, che però “mi rende praticamente vivo”.
Il Dna tramandato ai posteri
C'è poi un altro aspetto del post mortem, per ora meno popolare ma altrettanto attuale. Sono sempre di più le società che erogano servizi basati sulla mappatura del corredo genetico, come 23andMe. “Raramente pensiamo al destino del nostro Dna dopo aver effettuato i test”, ha sottolineato Stephanie Malia Fullerton, professoressa di bioetica alla University of Washington School of Medicine. Oltre al tema immediato della privacy, ce n'è un altro che riguarda l'aldilà: “Le nostre informazioni genetiche possono essere mercificate e continuare a creare prodotti commerciali anche molto tempo dopo la nostra scomparsa”. Fullerton ha quindi chiesto più attenzione sul tema e regole più stringenti. O, tanto per cominciare, una maggiore capacità d'intervento da parte dei familiari, che dovrebbero poter scegliere il destino dei geni della persona scomparsa. Come, in parte, fanno con gli account alcune piattaforme digitali.
L'eredità di Facebook
Facebook è un social network molto popoloso e ormai piuttosto anziano. Ed è quindi naturale che cresca il numero degli utenti deceduti. Non è un caso se proprio a Menlo Park, ormai da tempo, hanno creato una delle procedure più complete per la gestione post mortem degli account. L'utente può scrivere una sorte di testamento. Può, ad esempio, scegliere di eliminare il profilo dopo la sua scomparsa, indicando questa precisa volontà nelle impostazioni.
Nonostante i progressi della tecnologia, non è ancora possibile segnalare la propria morte. Per cui la cancellazione scatterà “quando qualcuno ci comunicherà il tuo decesso”, spiega Facebook. Verranno quindi eliminati, “in modo definitivo”, “tutti i messaggi, le foto, i post, i commenti, le reazioni e le informazioni” presenti sulla piattaforma. Se invece un utente ambisce a far sopravvivere il proprio profilo a se stesso, può nominare un “contatto erede”. Cioè un altro iscritto responsabile della trasformazione in “account commemorativi”. Il profilo non comparirà più tra i suggerimenti di amicizia e accanto al nome comparirà la dicitura “in memoria di”. Ma per il resto non cambia molto: in base alle impostazioni sulla privacy, gli amici potranno continuare a commentare e condividere ricordi.
Post mortem online: istruzioni per l'uso
Instagram ha una procedura diversa. Un parente può chiedere la rimozione o la trasformazione in account commemorativo (ma servono i documenti che attestino la morte e il legame). Il profilo non comparirà più nella sezione esplora ma, a differenza di Facebook, l'account commemorativo non può essere aggiornato o modificato.
Twitter non fornisce a nessuno e per nessun motivo i dati per accedere all'account del caro estinto. Se ne può chiedere la rimozione, passando però dalle carte, come il certificato di morte.
Simili sono le procedura per la chiusura dell'account di LinkedIn e Google. Big G offre però anche un'altra possibilità: l'utente può configurare la sorte del proprio profilo. Mountain View dichiara la morte digitale se l'account resta inattivo per un certo periodo (con opzioni dai 3 ai 18 mesi). Una volta arrivati a scadenza, in base alle ultime volontà, l'account verrà eliminato oppure sarà contattato un altro utente, con il quale condividere alcuni contenuti.
Il profilo di Apple (con tutto quello che c'è dentro, dalle app ai film), “non è trasferibile”. Può solo essere eliminato, inviando i documenti che attestino il trapasso.
Un team si occuperà di vagliare le richieste di chiusura account per Amazon. La piattaforma di e-commerce, però, bada al sodo: nella pagina dedicata, poche righe dopo aver fatto le condoglianze, chiede di fornire “un indirizzo e-mail e l'ultimo acquisto effettuato” se “desideri che eventuali buoni regalo ti vengano trasferiti”. Un coupon a futura memoria.
Finché chatbot non ci separi
Non c'è solo la gestione della vita biologica nell'aldilà digitale. Alcune applicazioni dell'intelligenza artificiale ambiscono a sfumare il confine tra l'una e l'altro. Diverse società puntano a trasformare un timore (che i nostri dati ci sopravvivano) in una risorsa (ricreare interazioni realistiche anche dopo la morte). Funzionano un po' come il software di “Be Right Back” (Torna da me), episodio di Black Mirror in cui una giovane donna interagisce con il compagno morto, ricostruito in chat grazie alla raccolta dei suoi dati online.
Eternime è una società statunitense che fa proprio questo. Gli utenti che si propongono mettono a disposizione quello (tanto) che si può sapere dalla loro attività online: foto, post, messaggi. Al momento del trapasso, Eternime impacchetta tutto e lo trasforma in un avatar con cui chattare. Secondo il fondatore Marius Ursache, “si muore tre volte”: “Quando non ci prendiamo cura di noi stessi, quando ci mettono nella tomba e quando il nostro nome è pronunciato per l'ultima volta”. L'obiettivo di Urache è evitare la terza. E se l'idea può sembrare inquietante, ci sono già 46580 persone che hanno deciso di provarci.
Ehi Alexa, riportalo in vita
HereAfter ha lo stesso obiettivo, ma ci mette di mezzo la voce e utilizza un altro strumento per la raccolta dei dati. La società registra (di persona) una sorta di audio diario. Chi decide di iscriversi racconta aneddoti, episodi del passato, consigli per il futuro, canzoni preferite. L'intelligenza artificiale li rimescola, creando un avatar da ascoltare tramite smart speaker. Basta scaricare un'app per interpellare la nonna defunta come fosse Alexa.
L'idea del co-fondatore James Vlahos è nata registrando la voce del padre, cui era stato diagnosticato un cancro. Da lì è nato “Dadbot”, un software installato sullo smartphone che interagiva con il figlio. “In questo modo ho sempre mio padre in tasca”, ha detto Vlahos. Anche l'idea di Replika è nata da un addio. La co-fondatrice Eugenia Kuyda aveva creato un chatbot partendo da migliaia di messaggi ricevuti da un amico scomparso, Roman. Tra il 2015 e il 2017, la startup ha ricevuto circa 11 milioni di dollari di finanziamenti e cambiato direzione. È sempre un bot che dialoga, ma si nutre delle discussioni con gli utenti (vivi). Un confidente digitale, per il presente. Qui, però, più che vicini a Black Mirror, siamo dalle parti di Her.