l bando di Trump non era un terremoto ma il primo sasso della slavina. Eccoli i suoi effetti: Google non fornirà più ad Huawei (e quindi neppure al marchio controllato Honor) “hardware, software e servizi”. Cioè niente Android (fatta eccezione per la versione open source) e – soprattutto – niente Google Play Store e app sviluppate da Mountain View. Le conseguenze, come ha spiegato anche il gruppo americano a Reuters, sono ancora da definire, anche perché il bando potrebbe non essere definitivo. E non è detto che l'unica a rimetterci sia Huawei.
La rottura con Android
Gli effetti della decisione di Google sono due, intrecciati ma distinti. Il primo riguarda il sistema operativo Android, che potrà essere utilizzato solo nella sua versione “pubblica”.
Come tre smartphone su quattro sul pianeta, anche quelli di Huawei hanno a bordo Android. Il sistema operativo di Google ha una base “libera”. Un “pacchetto” di codice (Android Open Source Project, Aosp) cui tutti possono attingere. I produttori lo prendono e ci mettono mano, adattandolo ai propri prodotti e costruendo delle versioni “proprietarie” (cioè non libere e condivise). È il caso, per Huawei, del sistema Emui. È un po' come se dagli Stati Uniti arrivassero abiti già pronti, che Huawei modifica per renderli “su misura”. Qualche punto qui, qualche taglio là. Tutto questo con il supporto di Google, che (da subito e per tutti dispositivi del marchio cinese) non ci sarà più.
Vuol dire che Android scomparirà dagli smartphone Huawei? No. Di sicuro, ogni aggiornamento richiederà maggiore sforzo da parte di Huawei, perché la versione pubblica di Android è più povera e l'integrazione di nuove funzionalità potrebbe essere più lenta. Il gruppo di Shenzhen non avrà più un canale diretto con Mountain View e dovrà aspettare che gli aggiornamenti arrivino su Aosp prima di utilizzarli. Il tempo, in un mondo nel quale gli aggiornamenti sono fatti non solo per migliorare il servizio, ma anche per tappare delle falle nella sicurezza, è un fattore tutt'altro che secondario. Se fino a ora Google ha riempito l'armadio di Huawei, adesso si limiterà a spedire stoffa e disegno. Al resto ci dovranno pensare in Cina. Difficile, però, dire quali saranno le ripercussioni sugli utenti.
Cosa cambia se hai un Huawei
Il secondo punto riguarda i servizi e le app di Google. Sugli smartphone in circolazione dovrebbe cambiare poco o nulla: resta l'accesso a Google Play (il negozio di app di Android) e restano le protezioni di Google Play Protect (il “vigilante” di quel negozio). Nei nuovi Huawei, invece, niente servizi di Google. Ed è questo, probabilmente, il nodo che potrebbe pesare di più sulle vendite dei prossimi mesi.
Non avere a disposizione Google Play vuol dire non aggiornare le app (tutte le app). Perché le nuove versioni entrano nello smartphone passando dal negozio digitale. Vuol dire che non si potranno scaricare e utilizzare le applicazioni più popolari? Non esattamente. Huawei ha già una propria piattaforma di distribuzione, AppGallery, che funziona in modo simile a Google Play. Quello che mancherà saranno i servizi di proprietà di Big G. L'integrazione con Android fa infatti spesso dimenticare quante applicazioni che già troviamo sullo smartphone siano proprietà di Mountain View. Basta andare sul Play Store e digitare “Google app”. Viene fuori una lunga lista, che tra le altre cose include: il motore di ricerca, il browser Chrome, l'assistente digitale, le gallerie di giochi, film e musica, Google Earth, Calendar, Foto, Lens, Android Auto, Trips, Hangouts, Google Drive, News, Documenti. Ma soprattutto Gmail, Maps e Youtube. Non dovrebbero essere a disposizione sui nuovi Huawei.
La contromossa: diventare autarchici
Per Huawei, non c'è che dire, il colpo è duro. La società ha fatto sapere che “continuerà a fornire aggiornamenti di sicurezza e servizi post-vendita a tutti gli smartphone e tablet Huawei e Honor esistenti”. Cioè sia quelli già venduti, sia quelli in magazzino. Neanche la voce ufficiale, però, si sbilancia sul futuro.
Negli ultimi mesi, comunque, il gruppo si è mosso per cercare di ammortizzare il peggio (che adesso sembra essere diventato concreto). Huawei ha una gamma di servizi (già disponibili) che in parte puntano a sostituire quelli di Google. Che però, soprattutto in Europa, hanno una popolarità molto minore. Sono comunque un tentativo di smarcarsi, che ha proprio in AppGallery, lanciato all'inizio del 2018, una chiara dimostrazione.
Capitolo sistema operativo. A marzo Richard Yu, il ceo della divisione consumer, ha detto a Die Welt di avere “un piano B” nel caso le cose si fossero messe male: “Preferiamo lavorare con gli ecosistemi di Google e Microsoft, ma abbiamo preparato il nostro sistema operativo”. Huawei starebbe lavorando al progetto dal 2012, ma non è dato sapere a che punto sia. In ogni caso, sarà difficile compensare l'assenza di servizi Google, molto usati soprattutto in Europa e nei paesi in via di sviluppo. Sono questi i mercati cui Shenzhen dovrebbe guardare con più preoccupazione: in Cina, infatti, il divorzio con Google - che da quelle parti è bloccata – potrebbe non avere un effetto deflagrante. Così come negli Stati Uniti, dove Huawei non vende i propri smartphone. Discorso diverso in Europa, dove Huawei cresce intrecciandosi con l'ecosistema Google.
Il guaio dei chip
I guai non finiscono né ai servizi né agli smartphone. Stanno sospendendo le forniture a Huawei Intel, Qualcomm e Broadcomm, cioè alcuni dei produttori di chip più grandi del mondo. L'impatto, anche qui, è da valutare. Ma potrebbe avere una portata globale.
I tagli potrebbero colpire gli smartphone di fascia media (che usano i processori Qualcomm) e i portatili Huawei (che montano Intel). E se anche Microsoft si adeguasse alla Casa Bianca? Sarebbe una mazzata simile (anche se di minore portata) a quella di Google, perché i portatili Huawei usano Windows.
Anche in questo caso, varrebbe il “piano B” indicato da Yu. Ma a quale prezzo e con quali tempi? Tra le altre società americane che riforniscono Huawei c'è Micron Technology. I suoi tagli potrebbero impattare sullo sviluppo del 5G. Secondo Bloomberg, Huawei si è già mossa per ammortizzare il taglio dei chip, facendo scorte che gli permetterebbero di andare avanti per almeno tre mesi. A questo si aggiunge l'accelerazione della società cinese nella produzione di proprie componenti. Sui sui top di gamma monta il processore Kirin e a gennaio ha battezzato il modem Balong 5000. Arricchire la gamma di semiconduttori avrebbe un doppio valore: da un lato sarebbe un tentativo di affrancarsi dai produttori americani; dall'altra amplierebbe un segmento fino a ora praticamente inesplorato, quello di Huawei come fornitore di aziende terze. Che però, a questo punto, non potranno essere statunitensi (cioè Apple).
La Cina e i danni collaterali
Chi ci guadagna? Nell'immediato, nessuno. Per Huawei non è certo una bella notizia. Senza i servizi di Google, gli utenti potrebbero decidere di comprare altri smartphone. E il gruppo potrebbe ritrovarsi a corto di chip, ritardando le consegne. Google però taglia un produttore che, nel primo trimestre 2019, ha avuto una quota di mercato del 19%. È vero che è alimentata dal mercato cinese, dove i servizi Google non hanno accesso, ma è pur sempre una fetta consistente. Che vuol dire applicazioni, sviluppatori, utenti, fatturato.
Pare fantasioso, al momento, ipotizzare che di un eventuale calo di Huawei possano beneficiare i Pixel (gli smartphone di Big G). Ancora più problematica potrebbe essere la situazione dei fornitori di chip. Huawei è un cliente forte, difficilmente sostituibile, al quale rinunciano. Non a caso, già nella seduta di venerdì (dopo il bando firmato da Trump, ma prima che le singole società si accodassero), le azioni di Qualcomm e Intel (così come quelle Google) hanno chiuso in calo. In apertura di settimana ha invece festeggiato Samsung (+1,94%): la società coreana è - per varietà di gamma – uno dei concorrenti più diretti di Huawei.
Diverso è il discorso di Apple. Sia perché la fascia di mercato della Mela (i top di gamma) tocca solo una porzione delle vendite di Huawei. Sia perché Cupertino si espone a rappresaglie commerciali da parte della Cina. A risentirne sarebbero anche i fornitori locali, ma le ultime trimestrali stanno evidenziando quanto la debolezza in Asia possa pesare sugli iPhone e sul bilancio di Apple.
Per tornare al motivo del bando da parte di Washington: la sicurezza avrebbe comunque la priorità sui conti economici, ma al momento gli Stati Uniti non ha fornito prove certe dei legami tra Pechino e Huawei. Trump sta quindi facendo la sua mossa: penalizzare anche le imprese americane è un danno collaterale che gli Stati Uniti accettano pur di colpire Shenzhen, rilanciare sul tavolo dei dazi e procedere nella nuova guerra fredda tecnologica.