“Siamo in una primavera dell’intelligenza artificiale”, diceva due anni fa John Giannandrea, che allora, a Google, era a capo di questo settore di ricerca (prima di essere scippato da Apple). Negli ultimi anni infatti sono cresciuti gli strumenti che fanno uso di sistemi di AI (Artificial Intelligence), e soprattutto di una sua branca specifica nota come machine learning, che sviluppa algoritmi in grado di apprendere e migliorarsi dai dati. Tra i tanti ambiti di applicazione, anche quello, ostico, della comprensione del linguaggio naturale e delle traduzioni.
Infatti, quando 12 anni fa Google lanciò Translate, il suo servizio di traduzione - disponibile sia su sito che via app - utilizzava una tecnologia (nota come PBMT, phrase-based machine translation) la quale spezzava una frase in parole e frasi che venivano tradotte in modo indipendente, dopo aver cercato degli schemi, dei pattern statistici su miliardi di combinazioni tratte da traduzioni umane. I risultati non erano sempre egregi, soprattutto se si contava solo su quello strumento per capire esattamente il senso di una frase.
L’uso della AI nelle traduzioni
Ma circa tre anni fa, le traduzioni sono state rinvigorite da una nuova tecnologia, in concomitanza con la rinascita delle ricerche in intelligenza artificiale (rinascita perché questa disciplina ha già visto periodi di grandi speranze seguite, dopo le delusioni, da un disinteresse noto come l’inverno dell’AI). Da allora Google Translate ha fatto un balzo in avanti usando una tecnica (la Neural Machine Translation - NMT), basata sul deep learning (approfondimento profondo, a sua volta una branca del più noto machine learning), che è alla base di miglioramenti in molti altri settori, ad esempio nel riconoscimento di immagini. Il deep learning combina delle reti neurali artificiali, cioè degli strati di unità computazionali che imitano a grandi linee il funzionamento dei neuroni, con grandi quantità di dati. Il risultato è che nel caso delle traduzioni sono le frasi intere a essere considerate e tradotte, invece delle loro singole unità.
Il problema di essere connessi
Come si lega tutto questo discorso alla app sul telefonino di un turista in viaggio nelle lande remote di un Paese straniero? Il fatto è che per avere una traduzione migliore, sostenuta dai citati progressi dell’intelligenza artificiale, bisognava restare sempre connessi al cloud, ai server dell’azienda, per poter utilizzare i suoi sofisticati algoritmi di machine learning e le risorse computazionali necessarie. E magari proprio perché si era in viaggio, e quando più si aveva bisogno della app, non era possibile avere accesso a internet. D’altro canto, rimpacchettare questa tecnologia dentro un telefonino, fino a pochi mesi fa, era ancora difficile. Ora però due delle maggiori aziende si sono mosse.
L’aggiornamento di Google Translate
In particolare ieri Google Translate ha rilasciato un aggiornamento alla sua app per dispositivi mobili che migliorerà le traduzioni anche quando l’utente si trovi offline, senza una connessione dati. Come abbiamo spiegato, finora la performance di questo genere di servizio dipendeva dalla possibilità di essere connessi alla Rete e quindi ai server aziendali. Il risultato era che Translate funzionava in modo diverso se si era online o offline. Ora però l’azienda di Mountain View ha trasferito la specifica tecnologia di AI usata per le traduzioni online - la già citata Neural Machine Translation (NMT) - anche sulla versione offline delle app (con supporto a 59 lingue incluso l’italiano).
Rispetto alla tecnologia usata in precedenza nelle versioni offline, “i sistemi neurali traducono intere frasi alla volta, invece di un pezzo dopo pezzo. Usano il contesto più ampio per determinare la traduzione più rilevante, che poi viene riaggiustata e riorganizzata per suonare più come il parlato di una persona che una grammatica. Tutto ciò rende i paragrafi e gli articoli tradotti più scorrevoli e facili da leggere”, ha scritto la product manager Julie Cattieau sul blog aziendale.
Google non è la prima ad averlo fatto. Due mesi fa anche Microsoft aveva compiuto un’operazione simile, aggiungendo la capacità di usare i sistemi di AI alla sua app Translator (per una decina di lingue, italiano incluso) anche quando l’utente si trovi offline.