"Non possiamo creare una comunità informata senza giornalisti. Se sempre più persone leggono le notizie in luoghi come Facebook, noi abbiamo la responsabilità di contribuire a fare in modo che tutti abbiano una comprensione adeguata delle cose. Ma sappiamo anche che le nuove tecnologie possono rendere più difficile per gli editori finanziare il lavoro dei giornalisti, sui cui tutti noi contiamo. Per questo qualche tempo fa abbiamo lanciato Facebook Journalism Project. Il nostro obiettivo è lavorare piu' vicino alle redazioni, ma stiamo anche lavorando con ricercatori e università per aiutare le persone ad essere più informate e consapevoli delle notizie che leggiamo online".
L'ultimo post di Mark Zuckerberg forse è destinato a fare storia. Il fondatore del social network che ha rivoluzionato negli ultimi anni non solo le dinamiche sociali del pianeta, ma anche le metriche e le 'diete mediatiche' delle persone, il modo di cercare e consumare informazioni, afferma che il giornalismo professionale conta molto, va sostenuto e difeso. Facebook - in questi dieci anni il grimaldello che ha scardinato e 'disintermediato' le vecchie logiche dei giornali e dei media tradizionali (produttori unilaterali di informazioni per il pubblico) - riconosce, i sostanza, che la diffusione di notizie credibili passa per il lavoro di professionisti, di cui più di un grande broadcaster mondiale aveva pensato di poter rinunciare. Ormai le news passano per social - questo il pensiero dominante - quindi da consumatori a consumatori, e vengono distribuite da algoritmi sui motori di ricerca. Poi, ieri, il post di Zuckerberg. Siamo di fronte a una 'controriforma'? Facciamo un passo indietro.
Cosa ci dice la crisi del New York Times
Nel 2016 il New York Times chiuse i due primi trimestri dell'anno in perdita. Il motivo era sempre lo stesso: il crollo dei ricavi pubblicitari su carta. Sempre lo stesso da oltre dieci anni, la difficoltà nell'adeguare il modello di business dei giornali alla prima legge di internet: non pagare quello che si può avere gratis. In questo caso le notizie, che devono generare ricavi per consentire a chi le scrive di avere un lavoro dignitoso. Divenne subito necessario un ripensamento radicale delle strategie economiche del giornalismo. Un imperativo che si manifestò durante la crisi finanziaria più grave dalla Grande Depressione. E stare dietro all'evoluzione della rete dieci anni fa, prima del consolidamento dei social network, non era una cosa scontata per tutti. Rispondere con i contenuti su abbonamento era inevitabile. Ma non sarebbe bastato.
Nel terzo trimestre del 2016 il New York Times genera un utile per azione pari a zero. Via, vendere. A novembre il titolo scende ai minimi da tre anni e mezzo in borsa. Si continua a tagliare il personale (già nel 2014 erano stati decisi 100 esuberi su un 1.330 giornalisti). Nel frattempo, grazie agli investimenti sul digitale, i conti avevano iniziato a migliorare. Il secondo trimestre del 2017 si era chiuso con un aumento dei ricavi online del 23%. Nondimeno, viene soppresso un intero desk. Solo alla metà dei 100 dipendenti interessati viene proposto un trasferimento. Gli altri a casa.
Quotidiani in ginocchio contro compagnie grandi come Stati
Gli investimenti nel digitale risollevano il New York Times anche a Wall Street. Oggi il suo valore in borsa è risalito circa 3 miliardi di dollari, dai minimi del 2009 di poco più di mezzo miliardo. Ma come si può discutere ad armi pari con Facebook, che ha una capitalizzazione di mercato di 493 miliardi di dollari? O con Alphabet, casa madre di Google, 650 miliardi di dollari? Se considerassimo la capitalizzazione di mercato come Pil, Google e Facebook sarebbero rispettivamente la ventesima e la ventiquattresima economia mondiale. Mountain View si troverebbe sotto l'Arabia Saudita e staccherebbe la Svizzera di oltre venti miliardi. Palo Alto scalzerebbe la Polonia e insidierebbe la Norvegia.
La storia di uno dei più autorevoli quotidiani del pianeta è la storia di tutti i quotidiani. Costretti a prepararsi a un mondo dove il cartaceo continuerà a esistere, ma allo stesso modo nel quale continua a esistere il vinile per la musica. Il nuovo modello di business deve essere esclusivamente digitale. C'è chi ha già fatto il grande salto, dicendo addio alla cellulosa, come The Independent. E la scommessa sembra vinta, i bilanci hanno ricominciato a sorridere. Ma una sfida così epocale il giornalismo deve affrontarla da industria globale. I tentativi solitari di Belgio e Francia, che cercarono di costringere Google a dividere con i quotidiani gli introiti della pubblicità, sono finiti nel nulla.
La spinta risolutiva doveva arrivare dall'America, dove la rivoluzione digitale è partita. Lo scorso 10 luglio la News Media Alliance, associazione che riunisce oltre duemila testate statunitensi e canadesi, a partire dai pezzi da novanta come il il Wall Street Journal e lo stesso Nyt, ha detto basta e ha inoltrato al Congresso degli Stati Uniti una petizione che chiede di cambiare le leggi antitrust "in modo da impedire che i due giganti digitali continuino a parassitare gratuitamente i contenuti giornalistici prodotti da altri, intascando tutti o quasi i profitti della pubblicità". I numeri parlano da soli.
Il 50% del mercato mondiale in mano a due aziende
Come riportò 'La Stampa':
- Google e Facebook controllano il 70% del mercato americano della pubblicità digitale, pari a circa 73 miliardi di dollari
- A livello globale, le due aziende controllano il 50% del mercato.
- L'80% dei ricavi generati dalle ricerche su Internet va a Google.
- Il 40% di tutti gli spot digitali va a Facebook.
- L'83% di ogni nuovo dollaro investito nell'advertisement online entra nelle tasche di questo duopolio.
- L'intero introito dell'industria della stampa americana, cartacea e digitale, è 18 miliardi di euro, un terzo rispetto a un decennio fa
- L'anno scorso, invece, Google ha incassato da questo business 19 miliardi di profitti netti, e Facebook 10 miliardi.
Meanwhile, in Europe
In Europa, nel frattempo, non si era rimasti con le mani in mano e gli editori avevano già iniziato a fare pressioni di segno identico sull'antitrust comunitaria. E la multa da 3,2 miliardi di euro inflitta a Google il giugno passato dal commissario Ue alla Concorrenza, Margrethe Vestager, per quanto legata a questioni completamente differenti, significa anche che è sempre la politica a dover avere l'ultima parola.
I titani si siedono al tavolo
La successione di eventi è rapida. Sabato 19 agosto Bloomberg rivela che Google è alla ricerca di nuovi strumenti di sottoscrizione e di pagamento da sottoporre agli editori di notizie giornalistiche. Secondo l'agenzia americana, Mountain View intende:
- Rinnovare il "first click free", cioè la possibilità di visitare gratuitamente alla prima visita gli articoli di giornale reperibili sul suo motore di ricerca.
- Studiare con gli editori nuovi sistemi di pagamento per la lettura degli articoli, targhetizzando i possibili lettori interessati.
- Riportare sul web i lettori di giornali e i produttori di notizie, in una fase nella quale i governi nazionali cercano di investire i signori della rete della responsabilità di badare alla fake news, prospettiva che solleva questioni di democrazia ineludibili.
Inizialmente, secondo Bloomberg, Google avrebbe sondato il New York Times e il Financial Times. Tuttavia, come spiega Richard Gingras, vice presidente di Google News, la società starebbe trattando con altre testate. "E' chiaro - spiega Gingras - che gli editori di notizie non possono vivere solo di pubblicità. Ma è anche chiaro che stiamo osservando un cambiamento nel mercato". Tra le pochissime cose che si sanno è che Google intende puntare sull'applicazione open source Accelerated Mobile Pages.
"Non possiamo creare una comunità informata senza giornalisti"
Mark Zuckerberg ha parlato solo ora. Le indiscrezioni finora disponibili sussurrano di un'espansione di Istant Articles. Difficile, però, pensare che si voglia fermare qui. Leggendo tra le righe del suo post si comprende come abbia compreso appieno la posta in gioco.
"Il logo delle testate su tutti gli articoli"
"Per questo faremo test su nuovi modi per aiutare i giornali ad avere più abbonamenti. Se le persone che leggono delle notizie su Facebook poi sottoscrivono un abbonamento ai giornali, quei soldi andranno direttamente agli editori che lavorando duramente per la verità, e Facebook non prenderà percentuali su quella transizione. Cominceremo con un piccolo gruppo di editori americani e europei alla fine di quest'anno e ascolteremo i loro feedback".
"Faremo anche un aggiornamento questa settimana per aiutare le persone a vedere da dove vengono le notizie che leggiamo su Facebook. Quando le persone cercheranno una notizia, vedranno anche il logo della testata vicino l'articolo. Questa modifica viene dopo alcune conversazioni fatte con gli editori in giro per il mondo. L'obiettivo sarà avere il logo delle testate su tutti gli articoli, così tutti sapranno cosa stanno leggendo".
Zuckerberg ha compreso quanto amaro e irrazionale sia il paradosso del giornalismo nell'era di internet. Il New York Times è costretto a licenziare decine di persone. Eppure la domanda di notizie non è mai stata così enorme, con un dispositivo in tasca che ci dà accesso in qualsiasi momento della giornata a una quantità di notizie, o presunte tali, potenzialmente inesauribile. E lo scrolling compulsivo di titoli nella maggior parte dei casi non arriva nemmeno all'apertura dell'articolo, figurarsi alla verifica delle fonti, primo cardine del giornalismo. Di fronte alle fake news, la politica a volte evoca suggestioni orwelliane. Ma l'unico modo per combattere davvero le fake news è consentire al giornalismo professionale di vivere. Facebook e Google finalmente lo hanno compreso. E hanno deciso di agire.