L’angosciante vicenda dei bambini di famiglie di migranti irregolari che sono separati dai loro genitori o parenti, e tenuti in gabbie di metallo dalla polizia di frontiera americana sta scuotendo anche le aziende tech. Molte delle quali hanno contratti con varie agenzie governative americane. Tra queste Microsoft, che fornisce dei servizi proprio all’agenzia federale statunitense che si occupa di controlli alle frontiere e di immigrazione, l’ICE (Immigration and Customs Enforcement). Proprio quell’ICE che ora è al centro delle polemiche per le separazioni forzate dei bambini dalle loro famiglie.
Così una parte dei dipendenti di Microsoft si è fatta sentire, facendo pressione sul management perché sia cancellato il contratto della multinazionale con l’agenzia. In una lettera pubblicata sul sistema di messaggistica interno, e riportata dal New York Times, più di cento dipendenti hanno chiesto di chiudere il contratto da 19,4 milioni di dollari con ICE, cui Microsoft fornisce servizi cloud per il trattamento e l’elaborazione dei dati dell’agenzia. Allo stesso tempo i dipendenti chiedono l’adozione di una policy che vieti di lavorare per clienti che violano diritti umani riconosciuti nell’ordinamento internazionale
“I bambini al di sopra dei profitti”
“Riteniamo che Microsoft debba prendere una posizione etica, e mettere i bambini e le famiglie al di sopra dei profitti”, scrivono i dipendenti. “Siamo quelli che costruiscono le tecnologie da cui Microsoft trae profitto e ci rifiutiamo di essere complici. Siamo parte di un movimento crescente, che include molti che lavorano nella nostra industria e che riconosce la grave responsabilità chi chi crea tecnologie potenti per fare in modo che siano realizzate per il bene e non per fare del male”. Per ora il primo effetto della protesta interna a Microsoft è stata la pubblicazione di una nota dell’azienda, in cui il Ceo Satya Nadella stigmatizza la politica Usa sui migranti, specificando che l’azienda non sta lavorando con ICE su progetti in qualche modo legati alla separazione delle famiglie. Dal suo canto il presidente di Microsoft Brad Smith ha pubblicato un articolo sul blog aziendale chiedendo di tutelare i bambini.
I dilemmi morali dell’industria tech
Ma lo scontento e la mobilitazione per la politica Usa sull’immigrazione si ritrovano in molte aziende tecnologiche, dai dipendenti ai dirigenti, da Google a Facebook ad Apple. Per Tim Cook, Ceo di Apple, la situazione è “inumana”. Il Ceo di Google Sundar Pichai – per cui le immagini e le storie di quei bambini sono un “pugno nello stomaco” - chiede al governo una politica più umana. Netto anche Mark Zuckerberg, per il quale “bisogna fermare questa politica adesso”, e che aderisce a una raccolta fondi su Facebook lanciata da suoi dipendenti. Ma sono soprattutto le seconde e terze file di queste aziende a scalpitare. E lo fanno sempre più spesso, e non solo sulla questione immigrazione.
Ad esempio due mesi fa Google aveva fronteggiato una fronda interna in seguito alla rivelazione del suo coinvolgimento nel Progetto Maven, un programma del Pentagono che usa sistemi di intelligenza artificiale sviluppati anche dalla società di Mountain View per migliorare il riconoscimento di oggetti nelle immagini raccolte dai droni. L’assistenza fornita da Google aveva suscitato molte proteste interne, che avevano portato a una petizione e a una serie di dimissioni. A quel punto l’azienda di Mountain View ha deciso di non rinnovare il contratto e si è messa a lavorare a delle regole interne che proibiscano l’uso di tecnologie di intelligenza artificiale nelle armi.
Invece qualche giorno fa Amazon è finita nel mirino di attivisti per i diritti umani e di alcuni suoi stessi azionisti, che le hanno chiesto di non vendere la sua tecnologia di riconoscimento facciale, Rekognition, alla polizia. Tanto più che ci sarebbe il rischio che sia utilizzata principalmente a discapito di minoranze etniche.