Freeda è un'eccezione al quadrato. Anzi, al cubo. Perché è una società editoriale che cresce mentre molte muoiono; perché è donna. E perché è una startup italiana capace di ottenere un round di investimento da 10 milioni di dollari. Cioè di una taglia che spesso manca nel nostro ecosistema. Il principale investitore è Alven Capital. Ma hanno partecipato anche U-Start e alcuni business angel.
Il modello Freeda
Ora, la domanda è: come ha fatto una startup editoriale italiana a conquistare la fiducia e i dollari degli investitori? Freeda è nata nel settembre 2016. Con un target molto preciso: le donne millennial, tra i 18 e i 34 anni. Cioè quella fascia che spesso sfugge ai media tradizionali. La società è invece riuscita ad acchiapparla, anche senza una homepage. Freeda infatti vive sulle piattaforme social: Facebook, innanzitutto. Dove ha oltre 1,3 milioni di fan. Ma anche Instagram (arrivato più tardi), dove i follower sono quasi 600 mila.
Un breve dizionario per capire
- Branded content: è una pratica di marketing di creazione di contenuti che sono finanziati o prodotti direttamente da un inserzionista che investe in contenuti persuasivi, allo scopo di informare o intrattenere, per creare un’esperienza immersiva per il consumatore.
- Native advertising: è una forma di pubblicità sul web che, per generare interesse negli utenti, assume l'aspetto dei contenuti del sito sul quale è ospitata. L'obiettivo è riprodurre l'esperienza-utente del contesto in cui è posizionata sia nell'aspetto che nel contenuto.
I contenuti vivono direttamente in bacheca o tramite gli instant articles (il formato “agile” di Facebook, pensato soprattutto per il mobile, che permette di visualizzare gli articoli più in fretta). Freeda, ribalta le gerarchie: non si appoggia sui social ma è social. Con brevi interviste, grafica accattivante e riconoscibile, molti video. Risultato: ogni mese i post della testata vengono visti da 24 milioni di utenti. Senza avere un sito.
La dipendenza dalle piattaforme di Mark Zuckerberg è un rischio? Potrebbe. Anche se l'impatto di Facebook sul traffico dei giornali è un tema con cui tutti devono fare i conti, soprattutto adesso che il social ha modificato il proprio algoritmo per favorire i profili privati e penalizzare le pagine. Freeda, come tutti, ha bisogno di utenti per vivere. Ma la smania di traffico potrebbe essere relativa, perché la testata non vive di spazi pubblicitari, tanto più cari quanto più visti. Il modello di Freeda si basa su branded content e native advertising. Cioè articoli e video informativi sponsorizzati dalle aziende. Che trovano appetibile il formato proposto perché si rivolge a una platea molto precisa e piuttosto omogenea.
Il digitale che reclama parità
Il fatto che Freeda non abbia un sito, però, non inganni. La società è nuova ma non leggera. Nonostante sia nata da soli 20 mesi, ha un team composto da una quarantina di persone. Con professionalità che incrociano competenze tecniche ed editoriali: autori, videomaker, ma anche sviluppatori e data scientist.
Il personale (altra anomalia in Italia) è per la maggiore parte femminile. A partire dalla direttrice, Daria Bernardoni. Insomma: per chi non l'avesse ancora capito, essere un editore social (o, in generale, digitale) non è dilettantismo e leggerezza. È fare le cose con un approccio diverso. Che dietro formati e modelli nuovi non ci sia nulla di naif lo confermano anche i nomi di chi ha creato Freeda e di chi ci ha investito.
I fondatori sono due uomini cresciuti vicini alla famiglia Berlusconi. Andrea Scotti Calderini è stato direttore della divisione crossmedia e branded entertainment di Publitalia. Gianluigi Casole arriva dalla Holding Italiana Quattordicesima (oggi H14), la società di partecipazioni controllata da Luigi, Barbara ed Eleonora Berlusconi (i figli dell'ex Cavaliere e Veronica Lario). E in Freeda hanno investito anche i produttori cinematografici Ginevra Elkann (sorella di John e Lapo) e Lorenzo Mieli (figlio di Paolo).
Le sfide dei prossimi mesi
I milioni incassati dovrebbero consentire a Freeda di crescere anche oltre l'Italia. Il taglio dei contenuti (molte interviste sono già in inglese, sottotitolate) e le fonti d'ispirazione hanno sapore internazionale. Ma la sfida resta: riuscire a replicare all'estero un modello che in Italia sembra funzionare. Senza però farsi prendere la mano.
È vero che il branded content permette di non annaspare alla ricerca di un pubblico vasto (meglio averne un po' più ristretto, ma più coinvolto). Ma è anche vero che serve il giusto equilibrio: niente sovraccarichi pubblicitari, anche perché nei contenuti sponsorizzati credibilità e reputazione dell'editore non sono importanti: sono tutto.