Il volto di Mark Zuckerberg pesto, come dopo una rissa o un incontro di boxe. È la realizzazione grafica di David Moretti che campeggia sull'ultima copertina di Wired. Il numero dedica una lunga analisi ai "due anni che hanno sconvolto Facebook (e il mondo)". Due anni iniziati con la violentissima campagna per le elezioni presidenziali Usa, che contro (quasi) ogni pronostico hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca, e conclusi dalla polemica sul nuovo algoritmo, che sacrifica lo spazio dedicato in homepage ai post provenienti da aziende e media, rendendo il social network più utilizzato al mondo un luogo ancora meno ospitale per il giornalismo professionale. Mentre, dall'ultima trimestrale, iniziano a emergere i primi segnali di rallentamento, con la fuga dei teenager che non conosce requie (meglio Snapchat, dove i tuoi genitori non ti chiedono l'amicizia) e il tempo trascorso sulla piattaforma che diminuisce.
Nessuno è invincibile, nemmeno Zuckerberg. Ma a rendere questi ultimi due anni burrascosi è stato anche l'atteggiamento di autorità politiche che sono sembrate voler abdicare al loro ruolo, investendo un'azienda privata di compiti che non sono suoi (si veda la lotta alle bufale, che in una democrazia resta competenza del giornalismo di qualità) e quasi incolpandola della polarizzazione che ha avvelenato il dibattito politico da entrambi i lati dell'Atlantico.
Come se non fossero stati Donald Trump e Hillary Clinton, in una delle campagne elettorali più velenose della storia recente, a strapparsi a vicenda il rango di avversario per sostituirlo con quello di nemico. Chissà se dietro il mutamento dell'algoritmo non ci sia stato anche il desiderio di far tornare Facebook alla sua vocazione originaria: connetterci "con le persone alle quali teniamo". E allontanarsi da responsabilità magari non volute, ma alle quali Zuckerberg non potrà mai sfuggire del tutto. Ma il giovane miliardario è davvero, come lo descrive un suo impiegato, come Lennie, il forzuto idiota di "Uomini e Topi" inconsapevole della sua enorme forza?
Una compagnia sotto assedio
Che Facebook sia diventato il luogo dove la maggior parte di noi consuma la propria dieta di notizie quotidiana è, però, un dato di fatto incontrovertibile, per quanto la società si ostini a considerarsi null'altro che "una piattaforma". Ma le incomprensioni tra Zuckerberg e l'industria dei media (che ha visto un colosso diventare sempre più grande e ricco anche grazie a prodotti - le news - confezionati da lei) hanno una natura così radicale, quasi ontologica, da non poter essere forse mai superate del tutto. "C'è un problema più profondo", osserva Wired, "Mark Zuckerberg, secondo chi lo conosce bene, preferisce pensare al futuro. Non è molto interessato nei problemi attuali dell'industria dell'informazione, è interessato a problemi che sorgeranno da qui a cinque o vent'anni. I direttori delle grandi aziende giornalistiche, d'altro canto, sono preoccupati dal prossimo trimestre, forse addirittura dalla prossima telefonata".
Il casus belli da cui parte l'inchiesta è il licenziamento di Benjamin Fearnow, uno dei giornalisti che curavano il feed Trending Topics, il quale aveva descritto a Gizmodo un ambiente nel quale, scriverà il sito nel maggio 2016, "le notizie di orientamento conservatore venivano sistematicamente rimosse". Due mesi dopo arriva il confronto tra Zuckerberg e Rupert Murdoch, che di uno dei maggiori network conservatori - Fox News - è il proprietario. Murdoch accusa Facebook di costituire una vera e propria minaccia esistenziale per l'industria dei media. In risposta, Zuckerberg taglia la testa al toro e rimuove tutto il team giornalistico che lavorava a Trending Topics. La cura del feed passa agli ingegneri. Ma contro Facebook si alzano gli scudi di chi ritiene il social network responsabile della vittoria di Trump a causa delle bufale che vi corrono indisturbate. Una tesi, per Zuckerberg, "piuttosto folle". Poi verrà la controversia sul Russiagate. Zuckerberg prima arruola dei fact-checkers, poi si rende conto - meglio tardi che mai - che l'unica strada per combattere le fake news è aiutare il giornalismo professionale a sopravvivere. Il lancio del Trust Project sembra la volta buona. Finché non arriva la doccia fredda del cambio di algoritmo.
Il servizio è stato redatto intervistando 51 dipendenti, o ex tali, di Menlo Park (interpellato da Wired, Zuckerberg ha declinato l'offerta di un'intervista) e - scrive la rivista - "le storie variavano ma quasi tutti raccontavano, di fatto la stessa: quella di una compagnia, e di un Ceo, il cui tecno-ottimismo è stato schiacciato mentre venivano apprese le miriadi di modi nei quali la loro piattaforma può essere utilizzata in modo nocivo. Di un'elezione che ha scioccato Facebook e le cui conseguenze hanno messo la compagnia sotto assedio. Di una serie di minacce esterne, calcoli interni difensivi e false partenze che hanno ritardato la presa di coscienza di Facebook riguardo il suo impatto sulle questioni globali e sulla mente dei suoi utenti. E - negli ultimi capitoli della storia - del sincero tentativo della compagnia di redimersi".