Non sembra placarsi la polemica sui sacchetti di bioplastica che negli ultimi giorni ha investito i social network e i media. La vicenda riguarda l’obbligo per legge, dal 1 gennaio 2018, di utilizzare sacchetti di materiale biodegradabile per il reparto ortofrutta e anche di segnalare il prezzo degli stessi sull’etichetta prodotta dalle bilance quando si pesano frutta e verdura.
Tra le voci che si sono rincorse negli ultimi giorni, c’è anche quella che la norma sia un favore a un’azienda guidata da “un’amica” di Matteo Renzi. Anche se la confusione è tanta, perché al contempo alcuni insinuano che si tratti di una tassa. In ogni caso, per molti, parrebbe evidente che o sia una tassa o sia un favore passibile di conflitto di interessi.
La diretta interessata, Catia Bastioli, amministratrice delegata della piemontese Novamont, in un’intervista a Repubblica del 4 gennaio ha detto di non essere legata al segretario del Pd e che “noi nel 2016 abbiamo fatturato 170 milioni di euro, con circa una quota di mercato del 50% a livello europeo. Se invece parliamo dei numeri del business del bioplastico in Italia sono circa 450 milioni di euro totali, di tutte le imprese, che sono circa 150”.
Lo stesso Renzi è intervenuto sulla sua pagina Facebook scrivendo che “quanto all'accusa che il Parlamento avrebbe [introdotto la norma] per un'azienda amica del Pd vorrei ricordare che in Italia ci sono circa 150 aziende che fabbricano sacchetti prodotti da materiale naturali e non da petrolio. Hanno quattromila dipendenti e circa 350 milioni di fatturato”.
Abbiamo cercato di mettere chiarezza in questo argomento, partendo proprio dalla dichiarazione del leader di centrosinistra.
Quante aziende?
Abbiamo contattato Assobioplastiche, che riunisce le aziende che lavorano nel “comparto dei biopolimeri”, per avere i dati ufficiali e poter così analizzare la dichiarazione di Renzi. Secondo un report di Plastic Consult, società indipendente specializzata nella ricerca nel settore delle plastiche alla quale Assobioplastiche ha commissionato la ricerca, sono 152 le imprese del settore a operare in Italia.
Va però fatta un’importante distinzione tra i produttori della materia prima e i trasformatori, le società che cioè dalla materia prima creano i prodotti finali, come i sacchetti o i bicchieri in bioplastica. Nello specifico, in Italia i produttori sono 17, mentre tutti gli altri sono trasformatori. Di queste 135 aziende, “la maggior parte” produce sacchetti.
Possiamo quindi dire che l’affermazione di Bastioli sia corretta, mentre quella di Renzi è più imprecisa, perché non ci sono “circa 150 aziende che fabbricano sacchetti prodotti da materiale naturale”, ma sicuramente meno di 135. Le 150 aziende sono quelle dell’intera filiera.
Un’altra precisazione: l’azienda di Bastioli non produce direttamente i sacchetti al centro della polemica. Anzi, Novamont non produce proprio sacchetti. Si occupa infatti della materia prima, per la quale è effettivamente uno dei maggiori produttori a livello europeo, ma non di trasformarla in sacchetti o altri prodotti. Inoltre ci è stato riferito dall’ufficio stampa di Novamont che la società non detiene né ha mai detenuto partecipazioni in altre aziende che producono sacchetti.
Il giro d’affari
È inoltre vera l’affermazione di Bastioli sul fatto che i “numeri del business del bioplastico in Italia sono circa 450 milioni di euro totali”, come confermatoci da Assobioplastiche.
È invece di nuovo impreciso Renzi quando sostiene che le aziende che producono sacchetti in materiale bioplastico “hanno 4mila dipendenti e circa 350 milioni di fatturato”. È vero che nel comparto lavorano circa 4 mila dipendenti, ma considerando anche le aziende produttrici, inclusa Novamont che da sola conta 600 dipendenti. Le altre più grandi imprese produttrici a operare in Italia sono la tedesca Basf, il gruppo francese Sphere, la tedesca Fkur e l’americana NatureWorks.
Anche riguardo al fatturato, è vero che solo per la parte di imballaggi in bioplastica si tratta di 350 milioni di euro, ma all’interno non sono considerati solo i sacchetti, ma anche tutti gli altri prodotti che servono a questi scopi, come i bicchieri per esempio (ma non le posate in biomateriale).
Cosa dice la legge
La norma che regola l’utilizzo di sacchetti biodegradabili nei supermercati anche per il reparto ortofrutta è stata approvata ad agosto all’interno del decreto legge 123/2017 e riprende una direttiva europea del 2015, che vuole ridurre l’uso delle borse di plastica, assai inquinanti.
La legge italiana ha aggiunto un obbligo di utilizzo di sacchetti ultraleggeri (quelli dell’ortofrutta) che siano anche biodegradabili. Stabilisce infatti che dall’1 gennaio 2018 le borse di plastica devono essere “biodegradabili e compostabili e con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40 per cento”, dall’1 gennaio 2020 “con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 50 per cento” e dall’1 gennaio 2021 “con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 60 per cento”.
Sul perché sia stato introdotto questo obbligo di utilizzo di borse di plastica biodegradabili e compostabili - se cioè per fare un piacere a un’azienda “molto vicina a Renzi e al Giglio magico”, come sostiene Giorgia Meloni (pur con un condizionale) o per il “sacrosanto obiettivo di combattere l'inquinamento alla luce degli impegni che abbiamo firmato a Parigi e che rivendichiamo” come dice Matteo Renzi, non è nostro ruolo esprimerci.
La legge è stata votata in via definitiva alla Camera con 276 voti favorevoli, 121 contrari e 3 astenuti.
Il costo dei sacchetti
Altra grande confusione è stata fatta sul prezzo dei sacchetti. In effetti la polemica è nata proprio perché sulle etichette emesse dalla bilancia per pesare frutta e verdura è scritto, oltre al prezzo dell’alimento, anche quello del sacchetto. Da qui le critiche perché il costo a famiglia potrebbe variare “tra 4,17 e 12,51 euro” all’anno, dal momento che ogni sacchetto può costare tra gli 0,01 e i 0,03 euro.
La direttiva europea parla di obbligo di non distribuire gratuitamente le borse “leggere”, e infatti le normali “buste della spesa” in bioplastica si pagano da parecchio tempo.
Sulle buste ultraleggere - quelle dell’ortofrutta - la direttiva dice che “possono” essere escluse dall’obbligo di farle pagare. La legge italiana invece ha scelto di precisare che anche “le borse di plastica in materiale ultraleggero non possono essere distribuite a titolo gratuito” e quindi “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino”.
La spiegazione della scelta per un comportamento più rigido, in questo caso, è data dal ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti che ha dichiarato a Repubblica che si tratti di “un’operazione trasparenza voluta dal Parlamento unanime”. Come abbiamo già citato, in realtà il voto del Parlamento non è stato così “unanime” (i voti favorevoli sono stati 276, i contrari 121).
La spiegazione delle parole del ministro viene supportata da Legambiente che in una nota sostiene che “da sempre i cittadini pagano in modo invisibile gli imballaggi che acquistano con i prodotti alimentari ogni giorno, la differenza è che dal 1 gennaio, con la nuova normativa sui bioshopper, il prezzo di vendita del sacchetto è visibile e presente sullo scontrino”.
Insomma, imporre la “vendita per singola unità” e il divieto che le borse siano “distribuite a titolo gratuito” sarebbero un modo per evitare che il commerciante o il supermercato le “regali” spalmando poi il prezzo sul costo degli alimenti.
La posizione di Legambiente
Proprio Legambiente si è espressa duramente a riguardo e parla di “troppe bufale e inesattezze sui biosacchetti”.
A partire dal costo, come precisato sopra, l’associazione ambientalista prova a spiegare la propria posizione sull’argomento e per farlo sottolinea che un’altra bufala sia “la questione del monopolio di Novamont”.
Legambiente ribadisce che “in Italia si possono acquistare bioplastiche da diverse aziende della chimica verde mondiale” e che “tra le principali aziende della chimica verde una volta tanto l’Italia ha una leadership mondiale sul tema, grazie a una società che è stata la prima 30 anni fa a investire in questo settore e che negli ultimi 10 anni ha permesso di far riaprire impianti chiusi riconvertendoli a filiere che producono biopolimeri innovativi che riducono l'inquinamento da plastica”.
Mentre sulla possibilità di riutilizzo vecchi sacchetti o di portarli da casa, l’associazione sostiene che sia “un problema che si può facilmente superare semplicemente con una circolare ministeriale che permetta in modo chiaro, a chi vende frutta e verdura, di far usare sacchetti riutilizzabili, come ad esempio le retine, pratica già in uso nel nord Europa”.
Federdistribuzione, l’associazione di categoria della grande distribuzione, si dice però contraria a una simile interpretazione della normativa per vari motivi, non ultimo “l’impossibilità di ritarare le bilance di volta in volta in base al diverso imballaggio del consumatore”.
Conclusioni
Come spesso capita quando le notizie vengono alimentate dai social network, sono state dette molte imprecisioni riguardo all’obbligo di utilizzare i sacchetti in materiale biodegradabile per imbustare alimenti sfusi.
Renzi stesso è stato impreciso quando ha parlato di circa 150 aziende che producono sacchetti, con 4 mila dipendenti e 350 milioni di euro di fatturato. Ma l’ordine di grandezza è comunque simile. Anche il ministro Galletti ha parlato di dettagli su cui c’era un consenso “unanime”, mentre così non è stato.
Ma la curiosità forse più interessante nella vicenda è che la Novamont, l’azienda di Catia Bastioli accusata di essere vicina a Renzi, in realtà non produce i sacchetti di materiale bioplastico, ma solo la materia prima dalla quale questi vengono ricavati.