Da inizio marzo, il governo ha approvato una serie di provvedimenti per contrastare la diffusione del nuovo coronavirus in Italia. Una delle misure più restrittive, imposta su tutto il territorio nazionale, riguarda gli spostamenti delle persone: senza una valida ragione, giustificata da motivi di lavoro o per ragioni di salute o per altre necessità, è richiesto e necessario restare a casa.
È la prima volta che nella storia della Repubblica italiana viene adottata una misura di tale portata, che ha – e avrà – grosse conseguenze non solo sull’economia del Paese, ma anche sulla vita sociale dei cittadini italiani.
In particolare, che cosa dicono gli scienziati a proposito degli impatti psicologici di questa forma di semi-isolamento sulle popolazioni colpite dal coronavirus? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sulla questione, che oltre all’Italia e alla Cina, ormai sta coinvolgendo diversi Paesi europei, come la Spagna.
Un cambio di stile di vita e la paura
"L’impatto più grosso è che ci viene chiesto un radicale cambiamento dello stile di vita quotidiano, dove ci viene chiesto paradossalmente non di fare più cose, come la società moderna ci ha abituati a fare, generando il cosiddetto “stress per le tante cose da fare”, ma di non fare, di “restare a casa”", ha spiegato a Pagella Politica Gianluca Castelnuovo, professore ordinario di Psicologia clinica all’Università Cattolica di Milano.
Tutto questo può avere delle conseguenze sul piano psicologico per le persone, a cominciare dal nostro rapporto con la paura.
"In questo contesto di incertezza e di preoccupazione, la paura può essere funzionale, perché si può trasformare in attivazione e maggiore attenzione, per esempio per rispettare i protocolli di igiene, come lavarsi le mani e indossare i dispositivi di protezione individuale", ha chiarito Castelnuovo. "I problemi possono però verificarsi in quelle persone che hanno maggiori difficoltà a gestire l’ansia, in cui questo stato può diventare disfunzionale".
Che cosa ci dicono a proposito i precedenti della Sars e di altre epidemie?
Quali sono i precedenti…
Il 26 febbraio scorso, la prestigiosa rivista scientifica The Lancet ha pubblicato uno studio, realizzato da sette ricercatori del Dipartimento di psicologia medica dell’università britannica King’s College di Londra, dedicato proprio agli impatti psicologici della quarantena da coronavirus, suggerendo alcuni accorgimenti da prendere.
Seguendo le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), gli scienziati non hanno condotto un vero e proprio esperimento, che avrebbe richiesto tempi più lunghi, ma hanno fatto una panoramica della letteratura scientifica (quella che in gergo specialistico si chiama review) in materia di quarantena per trarre delle conclusioni applicabili alla pandemia da Covid-19.
In totale, i ricercatori hanno trovato sul tema 3.166 pubblicazioni scientifiche, da cui hanno selezionato oltre 20 studi, condotti in dieci Paesi diversi – dalla Cina al Canada, passando per la Liberia e il Senegal – e dedicati alle misure di quarantena messe in campo dal 2003 in poi per contrastare la diffusione di malattie come la Sars, l’Ebola o l’influenza pandemica H1N1.
… e che cosa ci dicono
Chiariamo subito che questi precedenti sono basati su numeri più ristretti a quelli di cui sentiamo parlare in questi giorni (lo studio più grande usa un campione di oltre 6.200 persone, quello più piccolo 10), e non per tutti ci sono dati precisi (per esempio, per alcuni studi non è disponibile sapere la durata dell’isolamento).
In ogni caso, come hanno rilevato i ricercatori su The Lancet, queste ricerche ci permettono di trarre alcune conclusioni utili – pur con alcuni limiti, come vedremo meglio più avanti – per comprendere e ridurre l’impatto psicologico della quarantena forzata sulle persone.
Una ricerca pubblicata nel 2004 ha mostrato che 338 membri di uno staff medico a Taiwan, messi in quarantena durante l’epidemia della Sars, hanno rilevato nei giorni immediatamente successivi alla fine dell’isolamento disturbi acuti da stress e una maggior propensione a vivere stati d’ansia e di insonnia.
Un altro studio, uscito nel 2009 e sempre relativo all’epidemia della Sars, ha evidenziato come in un campione di oltre 500 dipendenti di un ospedale cinese la quarantena abbia aumentato la probabilità di mostrare sintomi da stress post-traumatico. Un’evidenza, questa, raccolta anche da un’altra ricerca, uscita nel 2013, che ha avuto per oggetti i bambini e i loro genitori sottoposti a quarantena o altre misure di isolamento.
Nella popolazioni analizzate dopo giorni di quarantena, "gli studi riportano in generale sintomi psicologici come disturbi emotivi, depressione, stress, disturbi dell’umore, irritabilità, insonnia e segnali di stress post-traumatico", scrivono i ricercatori del King’s College, che hanno anche cercato di capire, dalla letteratura disponibile sul tema, se ci fossero delle caratteristiche individuali o demografiche che “facilitassero”, in un certo senso, l’insorgere di questi sintomi.
Qui le evidenze raccolte con il metodo scientifico sono ancora meno chiare. Un punto fermo sembra comunque essere che tra i soggetti più colpiti ci siano proprio i medici e gli staff ospedalieri, così come i soggetti in giovane età.
"Un rischio nel futuro prossimo è che passata questa crisi potremmo trovarci molti casi di burnout tra il personale che era in prima linea nel contrastare l’emergenza coronavirus", ha evidenziato Castelnuovo.
Come hanno sottolineato quattro ricercatori cinesi in una lettera pubblicata da The Lancet il 4 marzo scorso, si sa comunque ancora poco sugli impatti psicologici (e fisici) che i periodi di quarantena possono avere sui bambini, che in queste settimane sono costretti a restare in casa, lontani dalla scuola.
Altre fasce della popolazioni più a rischio, come evidenziano i Centers for disease control and prevention statunitensi (Cdc), sono gli anziani, i cittadini con malattie croniche e le persone che già soffrono di disturbi mentali, anche lievi.
Che cosa peggiora la quarantena
Altre evidenze scientifiche portano a ipotizzare il rafforzamento, sotto quarantena, di diversi stressor, ossia di quegli stimoli esterni che sono fonte di stress. Tra questi, gli stressor più diffusi sono la durata della quarantena, la paura di essersi contagiati (e anche quella di poter contagiare gli altri, in particolare i famigliari), la noia, la frustrazione e l’essere privi di beni necessari, non solo alimentari o per la salute, ma anche immateriali, come quelli legati all’informazione.
"La mancanza di chiarezza, in particolare sui diversi livelli di rischio, ha portato i partecipanti allo studio a temere il peggio", scrivono gli studiosi del King’s College, commentando una ricerca pubblicata nel 2017 e relativa all’epidemia di Ebola in Africa occidentale, scoppiata tra il 2014 e il 2016.
Esistono poi degli stressor che aumentano di molto il rischio di mostrare difficoltà psicologiche una volta finita la quarantena. In particolare, i ricercatori si sono concentrati sul quantificare gli effetti causati dalle perdite economiche e dallo stigma sociale che vivevano i soggetti isolati una volta liberi.
Tra le evidenze scientifiche, risulta per esempio che chi ha livelli di reddito più bassi mostra una necessità di supporto maggiore, sia economico che psicologico, durante e dopo i periodi di quarantena.
"Non vanno inoltre sottovalutati i problemi legati ai disturbi alimentari", ha sottolineato Castelnuovo. "Il rischio in questo periodo di semi-isolamento è quello di badare più alla quantità del cibo, che alla qualità. Questo contesto può essere utile per rigustare il piacere del cibo, mangiando lentamente e a piccole dosi, associandola anche a un po’ di attività fisica, rispettando sempre le regole, dal momento che non viviamo in un regime di coprifuoco".
Che cosa possiamo fare
Come sottolineano gli stessi ricercatori, la review uscita su The Lancet ha diversi limiti, anche se ad oggi resta la pubblicazione scientifica più dettagliata su questo tema, per lo meno legata alla diffusione del nuovo coronavirus.
Nello specifico, gli studi da cui sono state tratte le evidenze viste sopra sono stati condotti per lo più su un ristretto campione di persone, e in pochi casi c’è stato un confronto diretto tra soggetti isolati e soggetti non isolati.
In ogni caso, questa review fornisce una base scientifica a quello che già il buon senso sembra suggerire: i periodi di quarantena possono avere effetti psicologici profondi e duraturi, soprattutto sulle fasce della popolazione più deboli.
Secondo i ricercatori, è possibile rendere i periodi di isolamento "più tollerabili per il maggior numero di persone possibile", seguendo una serie di accorgimenti.
Una delle misure necessarie da adottare da parte di un governo è quella di spiegare con chiarezza che cosa sta succedendo, garantendo una comunicazione istituzionale trasparente e rinforzando il senso di altruismo nella cittadinanza.
"È necessario però non travolgere i lettori con le notizie angoscianti, ma comunicare le buone notizie, per esempio i casi di persone guarite dopo aver contratto il nuovo coronavirus", ha spiegato Castelnuovo. "Un ulteriore aiuto poi, in un’epoca in cui sono fortemente criticate e demonizzate, può arrivarci dalle tecnologie, che grazie alle videochiamate permettono a chi è isolato di avere un contatto sociale più solido di quello coltivato solo con dei messaggi".
Un discorso diverso vale per chi non vive da solo e magari in questi giorni è obbligato a condividere gli spazi domestici con dei famigliari.
"In questi casi è fondamentale strutturare la giornata, dividere i tempi e gli spazi in base a schemi e ritmi, rassicurando in particolare i bambini", ha sottolineato Castelnuovo. "Questo periodo di semi-isolamento è troppo lungo per essere lasciato al caso, serve organizzazione del proprio tempo, con ampi margini dedicati non a semplici passatempi, ma alle proprie passioni personali e ai propri talenti".
Inoltre, un altro elemento molto importante, che ha un impatto significativo sulla dimensione psicologica dei cittadini, è quello di garantire con facilità l’accesso a beni primari, come quelli alimentari, e a consulenze di supporto psicologico.
Il progetto “Solidarietà digitale”, promosso dal governo per permettere a imprese e associazioni di fornire servizi gratuiti alla cittadinanza, va anche in questa direzione. Sul sito ufficiale dell’iniziativa, è possibile consultare i servizi gratuiti offerti da diverse realtà che si occupano, per esempio, di organizzare colloqui psicologici in videochiamata.
Inoltre, come spiega il Ministero della Salute, "è disponibile un servizio di supporto psicologico per affrontare le emozioni durante il momento difficile di questa emergenza", chiamando il numero verde 800.06.55.10 (attivo 24 ore su 24, 7 giorni su 7).
Conclusione
Da diversi giorni, la popolazione italiana sta vivendo una forma di semi-isolamento forzato, a causa dell’emergenza coronavirus, una situazione già vissuta da Paesi come la Cina e più recentemente avviata anche da Stati europei come la Spagna.
Una delle questioni più pressanti in questo momento – oltre ai risvolti economici dell’emergenza – riguarda gli impatti psicologici dell’isolamento sui cittadini.
In base a esperienze di quarantene passate, gli scienziati suggeriscono che lunghi periodi di isolamento possano portare a sintomi psicologici come disturbi emotivi, depressione, stress, disturbi dell’umore, irritabilità, insonnia e segnali di disturbi da stress post-traumatico.
Ma come ha sottolineato Gianluca Castelnuovo, professore ordinario di Psicologia clinica all’Università Cattolica di Milano, questo periodo di radicale cambiamento dello stile di vita quotidiano può diventare anche un’opportunità per ripensare al nostro rapporto con le nostre passioni e con il cibo, e non solo una fonte di preoccupazioni.