Nella notte tra il 2 e il 3 gennaio gli Stati Uniti hanno ucciso in un raid su Baghdad il generale iraniano Qassem Soleimani, dal 1998 capo delle Forze al Quds e figura di spicco dell’apparato militare della Repubblica Islamica. Il britannico Times lo aveva inserito appena il 2 gennaio tra le venti persone che avrebbero potuto cambiare il 2020 – per l’Italia figura Giorgia Meloni – e chissà che la profezia non si avveri proprio col suo decesso.
Gli Stati Uniti hanno giustificato lo strike mirato in Iraq – che ha ucciso anche altre sei persone, tra cui Abu Mahdi al-Muhandis, comandante di una potente milizia sciita irachena – con la necessità di proteggere il proprio personale all’estero, in particolare in Iraq, da potenziali attacchi. L’ambasciata americana di Baghdad era stata attaccata da manifestanti sciiti filo-iraniani nei giorni scorsi, in risposta a un raid americano con cui erano state uccise decine di persone appartenenti a una milizia sciita, e secondo l’intelligence Usa c’era proprio Soleimani a coordinare le azioni anti-americane.
Ma chi sono e dove operavano (e dove operano) le Forze al Quds di Soleimani? Andiamo a vedere i dettagli.
Chi sono le Forze al Quds
Secondo quanto riporta l’intelligence militare americana (qui si può scaricare il report sull’Iran dello United States Army Training and Doctrine Command) le Forze al Quds – il nome arabo della città di Gerusalemme – sono l’unità delle Guardie della rivoluzione islamica (o Pasdaran) incaricata di condurre operazioni di guerriglia e di intelligence all’estero.
Danno supporto a numerosi attori non statali in tutto il Medio Oriente – dal Libano all’Afghanistan, dall’Iraq alla Palestina – e sono ritenute responsabili di azioni terroristiche e di spionaggio. Non è nota al momento la loro consistenza numerica ma secondo le stime dovrebbe aggirarsi intorno ai 10-20 mila uomini.
Dove hanno combattuto?
Ma dove hanno combattuto le Forze al Quds negli ultimi anni e in quali conflitti sono stati coinvolti?
Iraq
Il primo scenario, quello dove Soleimani è stato ucciso, è l’Iraq. Il Paese ha attraversato una transizione geopolitica molto complessa negli ultimi decenni. Era un Paese guidato da un regime espressione della minoranza sunnita, con Saddam Hussein, e fino alla guerra in Kuwait era un alleato dell’Occidente e un nemico giurato dell’Iran sciita, contro cui ha condotto una sanguinosa guerra durante gli anni ‘80.
Successivamente, durante la prima guerra del Golfo (1991), è divenuto nemico dell’Occidente ma il suo regime non è stato abbattuto per oltre un decennio, proprio per evitare che il Paese scivolasse nell’orbita filo-iraniana.
Nel 2003 la “guerra al terrore” di George W. Bush ha portato all’abbattimento del regime di Saddam e, con l’arrivo delle elezioni, la maggioranza sciita del Paese ha iniziato a esprimere i governi. Dopo il ritiro degli Usa nel 2011, e con il concomitante infiammarsi delle Primavere arabe, durante gli ultimi anni di governo del premier sciita al Maliki lo scontro con la minoranza sunnita è andato inasprendosi duramente.
Nel malcontento della minoranza sunnita ha trovato terreno fertile la propaganda dello Stato Islamico, organizzazione terroristica sunnita nata dall’unione di ex membri delle forze di intelligence irachena di Saddam Hussein e superstiti di Al Qaeda in Iraq di al Zawairi. Tra il 2013 e il 2014 l’Isis è riuscito a conquistare vaste aree dell’Iraq, in particolare Mosul, all’epoca la sua seconda città più popolosa.
Contro lo Stato Islamico, in Iraq, hanno combattuto le truppe irachene regolari e le milizie curdo-irachene (Peshmerga), aiutate dagli Usa, e le milizie irachene sciite, aiutate dall’Iran (con supporto di Mosca) e in particolare dalle Forze al Quds di Soleimani.
Dopo la sconfitta dello Stato Islamico è, di fatto, iniziata una contesa tra Iran e Usa per chi esercitasse maggiore influenza in Iraq. L’uccisione di Soleimani si può quindi leggere anche in questa cornice.
Siria
Una dinamica simile a quella irachena che abbiamo appena descritto si è registrata anche in Siria. Anche qui lo Stato Islamico è riuscito, tra il 2013 e il 2014, a conquistare il controllo di vaste aree del Paese e anche qui diverse forze – normalmente tra loro contrapposte – si sono unite per sconfiggerlo.
In particolare il regime di Assad ha goduto dell’appoggio dell’Iran, e di nuovo delle Forze al Quds, e della Russia (Teheran ha inoltre mobilitato la propria proxy libanese, la milizia sciita Hezbollah, in supporto ad Damasco). Diverse fazioni ribelli hanno goduto dell’appoggio degli Usa ma, dopo numerosi fallimenti, gli aiuti americani si sono concentrati sui curdi dell’Ypg (considerati dalla Turchia terroristi, il che ha portato al recente “tradimento” di Trump dei propri ex alleati curdi).
In Siria, a differenza che in Iraq, la sconfitta dell’Isis non ha portato a una contesa per l’influenza strategica nel Paese che coinvolgesse gli Stati Uniti. Damasco è saldamente nell’orbita di influenza russa e iraniana, mentre la Turchia – che ha abbandonato le sue mire geopolitiche sul Paese dopo aver perso lo scontro con la Russia nel 2015-2016 – gioca un ruolo di sponda nel nord del Paese. La decisione di Trump di ritirare le truppe ha reso ancor più chiaro il disinteresse dell’attuale amministrazione americana.
Altri Paesi
Oltre a Siria e Iraq, che sono state di recente i due teatri bellici in cui le Forze al Quds hanno ricoperto il ruolo militare di maggior rilievo, sono numerosi i Paesi in cui questo corpo dei Pasdaran ha operato negli ultimi anni.
In Libano l’Iran può contare sull’alleanza con la potente milizia sciita di Hezbollah, il “Partito di Dio”, che è un attore sia politico che militare nel Paese. Le Forze al Quds hanno storicamente aiutato e supportato Hezbollah fin dalla sua nascita, sia quando impiegata all’estero, sia quando impiegata in patria contro Israele.
In Afghanistan le Forze al Quds hanno mantenuto un atteggiamento definito “ambiguo” nei confronti dei Talebani negli anni successivi all’invasione americana e nella guerra in Siria sono riuscite a convogliare volontari sciiti dal Paese asiatico (e anche dal Pakistan) a supporto del regime di Assad.
Secondo gli esperti anche in Yemen i ribelli sciiti Houthi, che si contrappongono nella guerra civile che insanguina il Paese alle forze governative supportate dall’Arabia Saudita, hanno il supporto dell’Iran via Pasdaran e Forze al Quds.
In Palestina, infine, sia Hamas che il gruppo Palestinian Islamic Jihad secondo gli analisti americani sono supportati dalle Forze al Quds iraniane, contro Israele.
Inoltre agenti delle Forze al Quds pare siano operativi in numerosi altri Paesi “ostili” all’Iran, come ad esempio Arabia Saudita, Bahrein – dove il regime sunnita filo-Saud governa una popolazione a maggioranza sciita – e Kuwait.
Conclusione
Le Forze al Quds, definite in un lungo profilo di Soleimani pubblicato nel 2013 dal New Yorker come «più o meno analoghe a un incrocio tra la Cia e le forze speciali americane», sono un’unità fondamentale per Teheran, in particolare per la sua capacità di proiettare la propria influenza all’estero.
Nel corso degli ultimi anni sono state operative soprattutto in Siria e in Iraq, prima, durante e dopo la guerra contro lo Stato Islamico, garantendo all’Iran una decisiva influenza nei due Paesi. Sono inoltre operative in Libano, Afghanistan, Yemen e Palestina, e si ritiene che una rete di sue spie e simpatizzanti sia operativa in numerosi Stati mediorientali, tra cui anche l’Arabia Saudita, il principale rivale geopolitico dell’Iran.
La mossa degli Stati Uniti di uccidere il capo delle Forze al Quds, il generale Soleimani, può essere letta sia nel contesto dello scontro tra Usa e Iran per l’influenza in Iraq, sia come un favore di Washington ai suoi due più stretti alleati mediorientali, Arabia Saudita e Israele. Sia Riad che Tel Aviv avevano infatti un conto in sospeso con Soleimani e entrambe si ritenevano minacciate dalle sue operazioni.
Si vedrà nelle prossime settimane quali saranno gli strascichi e le conseguenze di questo omicidio. Ci sono tuttavia dei dubbi sul fatto che la strategia degli omicidi mirati possa essere utile: secondo gli esperti non ha funzionato – come riporta il New York Times – nella guerra al terrorismo e, secondo quanto dichiarato ad esempio dal senatore democratico Chris Murphy potrebbe essere controproducente nel confronto con Teheran.
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