Il 27 giugno, ospite a Zapping su Rai Radio 1, l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha detto (min. 08:03) che "chiudere l’Ilva vuol dire perdere un punto di Pil e mandare a casa 20 mila persone".
Ma è davvero così? Abbiamo verificato.
Di che cosa stiamo parlando
Negli ultimi giorni, l’acciaieria Ilva di Taranto – o meglio, “ex Ilva”, visto il cambio della proprietà – è tornata d’attualità.
Il 26 giugno, Gert Van Poelvoorde – l’amministratore delegato del ramo europeo di ArcelorMittal, la multinazionale con a capo l’indiano Lakshmi Mittal, che ora gestisce lo stabilimento siderurgico in Puglia – ha dichiarato che a settembre l’ex Ilva rischierà di chiudere a causa di una norma contenuta nel cosiddetto “decreto Crescita”, convertito in legge dal Senato il 27 giugno.
L’articolo 46 del decreto, come spiega un dossier del Servizio studi del Senato, stabilisce che dal 6 settembre 2019 per i responsabili dello stabilimento non varrà più "l’impunità per la violazione delle disposizioni a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro", elemento per Van Poelvoorde imprescindibile per poter risolvere i problemi ambientali dell’ex Ilva, fino al completamento del Piano ambientale.
Semplificando: secondo i critici di questa misura – rivendicata con forza dal ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro Luigi Di Maio – il rischio è che i manager dell’azienda siano esposti a rischi di carattere legale per una situazione che hanno ereditato e non causato, e quindi non vengano messi in condizione di poter mettere in regola una volta per tutte lo stabilimento.
Secondo i favorevoli, invece, l’obiettivo dell’abolizione dell’impunità è quello di garantire la tutela della salute per i cittadini di Taranto.
Già nei giorni precedenti, il ministero dello Sviluppo economico aveva detto in una nota che ArcelorMittal era già stata messa al corrente del provvedimento a febbraio 2019 e che il governo è al lavoro "affinché l'azienda continui ad operare nel rispetto dei parametri ambientali".
Vediamo ora che cosa accadrebbe se l’ex Ilva di Taranto dovesse chiudere.
Quanti sono i posti di lavoro a rischio
Il 6 settembre 2018, ArcelorMittal – una multinazionale tra le più grandi al mondo nella siderurgia e nel minerario – aveva annunciato sul proprio sito di aver trovato un accordo occupazionale sull’ex Ilva con i sindacati italiani dei lavoratori metalmeccanici.
Il 10 maggio 2018 – quando a capo del ministero dello Sviluppo economico c’era ancora Carlo Calenda – i sindacati avevano invece rifiutato una proposta di accordo per tutelare i lavoratori dell’impianto.
Come abbiamo spiegato in una nostra precedente analisi, ad agosto 2018 i dipendenti dell’allora gruppo Ilva – che oltre lo stabilimento di Taranto, comprendeva anche quelli di Genova, Novi Ligure e Paderno Dugnano – erano poco più di 13.500.
L’intesa siglata lo scorso settembre prevedeva che l’azienda si impegnasse ad assumere in totale 10.700 lavoratori, in base al loro esistente inquadramento contrattuale.
Per i circa 3 mila dipendenti rimasti, ArcelorMittal si era impegnata a finanziare un piano di incentivi per l’esodo volontario e ad assumere tra il 2023 e il 2025 qualsiasi lavoratore fosse rimasto nell’amministrazione straordinaria di Ilva.
Sul totale dei lavoratori del gruppo Ilva, ArcelorMittal aveva confermato a gennaio 2019 l’obiettivo di assumere 8.200 dipendenti per lo stabilimento di Taranto. A inizio giugno, però, la società ha annunciato che dal prossimo luglio 1.400 dipendenti (circa il 17 per cento della forza lavoro) saranno messi in cassa integrazione per 13 settimane, a causa delle condizioni critiche del mercato dell’acciaio.
Ricapitolando: attualmente lo stabilimento dell’ex Ilva di Taranto conta circa 8.200 dipendenti, e non "20 mila" come ha detto Calenda. Se si considerano tutti i dipendenti del gruppo ArcelorMittal in Italia, questo numero si aggira intorno agli 11 mila, anch’esso inferiore alla cifra riportata dall’ex ministro.
L’attuale europarlamentare del Partito democratico probabilmente fa riferimento non solo ai posti di lavoro diretti che si perderebbero con la chiusura, ma anche all’indotto, che, secondo fonti stampa, nel 2018 coinvolgeva circa 20 mila lavoratori.
Ma su questo aspetto non ci sono cifre ufficiali.
Quanto Pil vale l’ex Ilva
In termini di ricchezza, quanto perderebbe l’Italia se l’ex Ilva venisse chiusa? Qui si entra ancora di più nell’ambito delle stime.
Il 22 giugno, Il Sole 24 Ore ha pubblicato un aggiornamento di un’analisi econometrica (non consultabile pubblicamente) commissionata allo Svimez, un’associazione privata per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno.
Secondo il quotidiano di Confindustria, dal sequestro dello stabilimento avvenuto a luglio 2012 a oggi, sono andati perduti "23 miliardi di euro di Pil, l’1,35 per cento cumulato della ricchezza nazionale".
Lo studio ha infatti calcolato l’impatto della crisi dello stabilimento sull’andamento manifatturiero reale. Fra il 2013 e il 2018, la perdita sarebbe stata ogni anno tra i 3 e i 4 miliardi di euro.
Come spiega Il Sole 24 Ore, la riduzione delle ricchezza nazionale proseguirebbe anche quest’anno, vista la "decisione di ArcelorMittal di mantenere a 5,1 milioni di tonnellate la produzione di acciaio, anziché i 6 milioni promessi appena arrivati a Taranto".
Lo Svimez stima così che nel 2019 la ricchezza nazionale bruciata sarà di 3,62 miliardi.
Se si ipotizza che l’intero stabilimento venga chiuso, il conseguente azzeramento della produzione di acciaio – ossia la perdita di 6 milioni di tonnellate – equivarrebbe a una perdita di circa 24 miliardi di euro.
Dal momento che nel 2017, secondo i dati Istat, il Pil italiano era stimato intorno ai 1.725 miliardi di euro, la chiusura dell’ex Ilva e il blocco della produzione avrebbe un valore pari a circa l’1,4 per cento del Pil, una percentuale anche superiore a quella citata da Calenda.
Conclusione
L’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha detto che se l’ex Ilva di Taranto dovesse chiudere, si perderebbero 20 mila posti di lavoro e un punto di Pil.
Per quanto riguarda l’occupazione, l’attuale europarlamentare del Pd cita una stima e non un dato ufficiale: i dipendenti dello stabilimento sono infatti circa 8.200 (oltre 10 mila se si considera l’intera società ArcelorMittal Italia), meno della metà del numero indicato da Calenda. Le stime – più incerte – che tengono in considerazione anche l’indotto danno invece ragione all’ex ministro.
Sulla perdita di ricchezza nazionale, invece, un’analisi commissionata dal Sole 24 Ore ha stabilito che se si azzerasse la produzione di acciaio in capo all’Ilva, andrebbero perse 6 milioni di tonnellate, per un valore di circa 24 miliardi di euro.
Questa somma equivale, più o meno, all’1,4 per cento del Pil, una percentuale superiore di qualche decimale a quella indicata da Calenda.