Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, durante la conferenza stampa al termine del vertice del 3 settembre nella prefettura di Foggia per fare il punto sul caporalato, ha dichiarato (min. 3.08): “Il caporalato non è un problema soltanto delle regioni del Sud”.
Si tratta di un’affermazione corretta. Ma vediamo meglio qual è la situazione.
La definizione di caporalato
Il “caporalato”, secondo la definizione data dal vocabolario Treccani, è una “forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, specialmente agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali”.
Il paper del The European House – Ambrosetti
Alcune prime considerazioni si possono ricavare dal paper “Attiviamo Lavoro - Le potenzialità del lavoro in somministrazione per il settore dell'agricoltura”, presentato a febbraio 2016 a Palazzo Chigi, durante l’omonimo Forum organizzato dal gruppo di professionisti esperti di consulenza The European House – Ambrosetti per conto di Assosomm (Associazione italiana delle agenzie per il lavoro).
Secondo questo rapporto il fenomeno del caporalato è più grave nel Sud Italia, ma è in crescita anche nel resto del Paese.
Nel Sud, addirittura, il metodo dei caporali è l’unico o quasi con cui si trova manodopera non dipendente. Si legge infatti nel paper che “il caporalato detiene oggi nel Mezzogiorno un monopolio nell’attività di mediazione, ma il fenomeno è in aumento anche nelle regioni del Centro-Nord”.
Un fenomeno che coinvolge, sempre secondo il paper che contiene dati riferiti al 2015, 400 mila lavoratori di cui l’80% sono stranieri.
Si tratta di una percentuale rilevante del totale degli occupati nell’agricoltura. L’Istat stima fossero 1,239 milioni nel 2017 le “unità di lavoro” nell’agricoltura-silvicoltura-pesca.
Non si può dire che un terzo dei lavoratori dell’agricoltura lavori sotto caporale, perché l’unità di lavoro è una misura dell’occupazione con la quale le posizioni lavorative a tempo parziale sono riportate in unità di lavoro a tempo pieno, e dunque i lavoratori nel complesso potrebbero essere di più di 1,239 milioni. Ma di sicuro il caporalato interessa una quota significativa del totale.
Il salario di chi lavora sotto un caporale è poi in media inferiore del 50% rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali: parliamo di paghe intorno ai 25-30 euro al giorno, a cui vanno sottratti i costi di vitto, alloggio, trasporto e eventuali cure mediche.
Il rapporto dell’Osservatorio “Placido Rizzotto”
Considerazioni simili a quelle fatte dal gruppo Ambrosetti si leggono poi anche nei rapporti dell’Osservatorio “Placido Rizzotto”, della Flai-Cgil (la Federazione dei lavoratori dell’agroindustria della Cgil) su agromafie e caporalato.
Nel terzo rapporto, del 2016 (il quarto, del 2018, non è ancora pubblico), si sottolinea per prima cosa la difficoltà di avere un quadro definito dell’intermediazione nell’agricoltura, dato che si tratta di un fenomeno a carattere “illegale e informale”.
Se, come si legge nel rapporto, è vero che “il sistema del caporalato non è nuovo” e che “i caporali non sono nati con la manodopera straniera ma hanno una lunga tradizione”, è anche vero che negli ultimi decenni il fenomeno si sia evoluto rispetto al passato.
Il drastico aumento della manodopera straniera nell’agricoltura ha causato, secondo la definizione del giornalista Alessandro Leogrande ripresa dal rapporto, “la più grande ‘rivoluzione’ antropologica del Mezzogiorno rurale negli ultimi 20 anni”. Se in passato i campi erano per lo più un luogo di lavoro per i locali, oggi si assiste alla presenza massiccia di stranieri.
“Vi è un elemento, che balza ciclicamente all’attenzione della cronaca e ha contribuito a rendere la ‘rivoluzione’ più visibile al Sud”, prosegue il rapporto, cioè “il grave sfruttamento e le forme estreme del caporalato e della limitazione della libertà personale perpetrate ai danni di molti lavoratori nelle campagne”.
Ma, si legge ancora, “negli ultimi anni si sono registrati casi di estremo sfruttamento anche nel Lazio o in Piemonte o in Emilia-Romagna, contribuendo a fare degli elementi più drammatici della ‘rivoluzione’ non più un tratto meridionale ma un vero e proprio tratto negativo dell’agricoltura italiana”.
Il caporalato nel Nord Italia: l’esempio di Mantova
Il rapporto dell’Osservatorio “Placido Rizzotto” riporta poi alcune indagini su situazioni specifiche dove si è registrato il fenomeno del caporalato, come Mantova, Modena, Valle del Fulcino (Abruzzo), Palazzo San Gervasio (Basilicata) e Piana di Sibari (Calabria). Per portare un esempio di caporalato nel Nord, guardiamo più da vicino alla situazione nel territorio della città lombarda di Mantova.
La situazione che emerge dalle interviste condotte dal sindacato è che in alcune aree del territorio della provincia mantovana ci sono “da una parte i lavoratori stranieri con contratto stagionale, dall’altra i lavoratori stranieri senza contratto”.
La divisione tra i due gruppi è netta. “I primi sono generalmente stanziali, ed ammontano a circa 4/5.000 unità, i secondi invece si caratterizzano per la loro spiccata mobilità geografico-territoriale e ammontano a circa 300/400 unità (dunque quasi il 10% del totale). Questi ultimi sono quasi del tutto irregolari e sottoposti a modalità di lavoro dettate dai caporali”.
Ma anche il caporalato, secondo quanto riportano i sindacalisti intervistati per l’indagine, non è sempre lo stesso. In particolare quello che desta maggiore preoccupazione nella zona è un “caporalato che chiamiamo collettivo, cioè sono cooperative senza terra formate perlopiù da bulgari”.
Non si tratta di vere cooperative ma di organizzazioni che sfruttano i lavoratori, secondo quanto denunciato nel rapporto, pagandoli a salari bulgari, cambiandoli ogni settimana in modo da impedire che si radichino e avanzino pretese, e “nascondendoli” ai sindacalisti.
Il ricorso a questa forma di caporalato avviene anche, sempre secondo le testimonianze raccolte dal sindacato, per “ricattare” gli altri lavoratori, costringendoli ad accettare orari, salari e in generale condizioni di lavoro inferiori rispetto a quelle minime stabilite per legge.
Conclusione
Di Maio ha ragione nell’affermare che il caporalato non sia un fenomeno esclusivamente meridionale. Lo confermano tanto il rapporto dei professionisti dell’Ambrosetti quanto quello dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil.
Allo stesso tempo è vero che, se il fenomeno si sta ora diffondendo anche nel Centro e nel Nord Italia, al Sud la situazione sia ancora oggi assai più grave.
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