Il ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini il 19 agosto ha dichiarato: “O l’Europa decide seriamente di aiutare l’Italia in concreto, a partire ad esempio dai 180 immigrati a bordo della nave Diciotti, oppure saremo costretti a fare quello che stroncherà definitivamente il business degli scafisti. E cioè riaccompagnare in un porto libico le persone recuperate in mare”.
Si tratta di una promessa che andrebbe contro il diritto internazionale, anche in base a un precedente che riguarda la stessa Italia. Vediamo i dettagli.
Il caso della nave Diciotti
La nave “Diciotti”, pattugliatore d’altura della Guardia Costiera della classe Dattilo, aveva soccorso nella notte tra il 15 e il 16 agosto 190 migranti che si trovavano su un barcone in difficoltà all’interno della zona SAR (Search And Rescue) maltese. Tredici persone in gravi condizioni di salute sono state subito sbarcate a Lampedusa, mentre sono rimaste a bordo le altre 177.
Sul salvataggio è presto nato uno scontro tra Italia e Malta, con Roma che chiede a La Valletta di farsi carico dei migranti salvati nelle sue acque, e quest’ultima che rinfaccia all’Italia di essere intervenuta nella zona SAR maltese solo per impedire che il barcone carico di migranti arrivasse nella zona SAR italiana.
Al 20 di agosto lo stallo non si è ancora risolto e la “Diciotti” resta in rada a Lampedusa, senza il permesso da parte del governo di sbarcare i migranti. La vicenda ha suscitato la reazione imbarazzata del Cocer (il “sindacato” per le forze armate) della Guardia Costiera italiana, che tramite un suo rappresentante ha lamentato l’assurdità di impedire a una nave militare italiana di attraccare in un porto italiano.
Da registrare anche che sempre la Diciotti era stata al centro di una situazione analoga circa un mese fa, quando non le veniva concesso il permesso di sbarcare una settantina di migranti a Trapani. Secondo le ricostruzioni della stampa italiana, allora la situazione fu risolta anche grazie a un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che spinse il premier Conte ad autorizzare lo sbarco.
Cosa può fare oggi l’Europa
Il governo Lega-M5S, sia con le dichiarazioni di Salvini sia con quelle di Toninelli, ha chiesto all’Europa di farsi carico di questi migranti e degli arrivi via mare in generale.
Il Ministero degli Esteri, in particolare, ha scritto il 19 agosto in un comunicato di aver “ufficialmente e formalmente investito della questione [della nave “Diciotti”] la Commissione europea, affinché provveda a individuare una soluzione in linea con i principi di condivisione tra gli Stati membri dell’Unione Europea, concordati al Consiglio Europeo di giugno 2018, con riferimento ai flussi migratori”.
Nelle Conclusioni di quel Consiglio europeo l’Italia, con gli altri Paesi investiti dalle rotte migratorie, non è riuscita a imporre un meccanismo obbligatorio di suddivisione in quote dei migranti tra Stati membri (un simile meccanismo è invece stato in vigore tra il 2015 il 2017 e, come abbiamo visto in passato, ha interessato alcune decine di migliaia di richiedenti asilo). La condivisione dei migranti oggi può avvenire, in base ai “principi” citati dalla Farnesina, esclusivamente su base volontaria.
L’Unione Europea, in altre parole, al momento non ha gli strumenti per imporre la ripartizione in quote dei migranti. Quando ancora vigeva il piano di ripartizione obbligatoria dei richiedenti asilo, gli Stati inadempienti erano quantomeno stati deferiti alla Corte di Giustizia dell’Ue. Adesso Bruxelles può al massimo rendersi disponibile per agevolare gli accordi tra Stati membri, cosa che in effetti ha fatto per bocca della portavoce per la Migrazione della Commissione Ue, Tove Ernst.
Gli eventuali responsabili per una eventuale mancata solidarietà all’Italia non sono quindi al momento le istituzioni comunitarie, quanto gli Stati membri che decidono – legittimamente, in assenza di un obbligo giuridico – di non aderire ad alcun meccanismo volontario di ripartizione in quote dei migranti. Naturalmente questo non vieta che l’Ue prenda nuove e diverse mosse in futuro, ma potrà farlo solo se un’ampia maggioranza di Stati membri le concederà giuridicamente i poteri necessari.
Il diritto internazionale
Ma veniamo alla minaccia di Salvini di rimandare in Libia i migranti salvati in mare. Come anticipato, si tratta di una promessa illegale. L’Italia non può respingere le navi cariche di migranti verso il Paese africano, a meno di non voler violare il diritto internazionale ed esporsi quindi a una assai probabile condanna. Vediamo il perché.
L’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati dispone che “nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.
In base poi alla giurisprudenza internazionale, il divieto di respingimento si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia già stata riconosciuta rifugiata o dal fatto che abbia presentato domanda in tal senso.
Quindi, di fatto, è vietato respingere un barcone di migranti che potrebbe avere a bordo perseguitati verso un Paese dove la loro vita e la loro libertà fossero in pericolo per motivi razziali, religiosi, politici e via dicendo.
La Libia è un “Paese sicuro”?
La Libia è ritenuto un Paese non sicuro dai giudici internazionali, e non è una novità. Non è infatti nemmeno necessario prendere in considerazione lo stato di anarchia in cui versa il Paese dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, la frammentazione che garantisce a tribù, milizie e signori della guerra il controllo di aree più o meno vaste del Paese, la faida tra le due fazioni maggiori, quella legittima per la comunità internazionale di Serraj in (parte della) Tripolitania e quella del generale Haftar in Cirenaica.
E non è neppure necessario prendere in considerazione gli stupri sistematici, le torture, le carcerazioni di massa senza processo o la presenza di schiavisti che, secondo inchieste comparse sulla stampa internazionale, da quando l’accordo siglato da Minniti ha ridotto il flusso migratorio verso l’Europa, vendono all’asta i migranti africani rimasti bloccati nel Paese.
Queste considerazioni sarebbero ovviamente sufficienti a ritenere la Libia un Paese non sicuro, uno verso cui non è possibile rimandare i barconi in base al diritto internazionale.
Ma prima ancora che la situazione nell’ex colonia italiana degenerasse nel caos dopo la caduta di Gheddafi, i giudici internazionali avevano già stabilito l’illegittimità dei respingimenti verso quel Paese, oltretutto in una sentenza di condanna proprio dell’Italia.
Il precedente del 2009
Si tratta di un caso risalente al 2009, quando il governo Berlusconi – anche allora era ministro degli Interni un leghista, Roberto Maroni – aveva messo in atto la politica dei respingimenti in mare. La Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia, nel 2012, a risarcire quei migranti che aveva illegittimamente respinto verso la costa africana. La Libia era infatti già allora considerato un Paese non sicuro.
Oltre alle ripetute violazioni dei diritti umani, presenti anche allora anche se non tanto quanto oggi, aveva pesato nella valutazione anche il fatto che la Libia non avesse mai sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 relativa allo status dei rifugiati.
Per Tripoli, insomma, migranti e rifugiati sono la stessa cosa. Quindi respingere in Libia una barca carica di persone, dove si mescolano migranti economici e aventi diritto alla protezione internazionale, espone i potenziali rifugiati a una negazione dei loro diritti fondamentali, come la vita o la libertà, vietata dal diritto internazionale.
Conclusioni
Le parole di Salvini promettono un’azione che, in base al diritto internazionale e ai precedenti, ha tutte le caratteristiche per risultare illegale. Minacciare di rimandare i barconi carichi di migranti in Libia significa infatti minacciare un comportamento vietato dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Un comportamento che, oltretutto, ha già portato alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo meno di dieci anni fa, quando la situazione in Libia era peraltro meno drammatica di quella di oggi.
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