In un articolo pubblicato il 1 giugno, il Corriere della Sera ha riportato alcune dichiarazioni del segretario della Lega e neoministro dell’Interno, Matteo Salvini.
Una di queste riguarda i beni sequestrati alle mafie: “Mi piacerebbe mettere a reddito i beni sequestrati alla criminalità organizzata, di modo da dimostrare che sono amministrati molto meglio dallo Stato che dalla mafia”.
Cerchiamo di capire a cosa faccia riferimento Salvini.
Cosa dice la legge
Come abbiamo già ricordato in passato, la legge più importante della normativa italiana in materia di sequestro dei beni della criminalità organizzata è la cosiddetta Rognoni - La Torre (l. 646 del 1982).
A questa sono seguite varie altre norme – ad esempio la legge 109 del 1996, che consentì il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie – che sono infine state riorganizzate e raccolte nel Codice Antimafia (d.lgs. 159/2011), aggiornato da ultimo dalla riforma del 2017.
Vediamo qual è la procedura. Alla fine del processo di sequestro di un bene mobile o immobile (o di un’azienda) riconducibile alla criminalità organizzata, viene nominato un amministratore giudiziario con il compito di amministrare i beni, anche al fine di farle fruttare. In questa attività è assistito dall’Avvocatura generale dello Stato e dall’Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc), alla quale è affidata la gestione del bene dopo il provvedimento di confisca di primo grado.
A seguito della confisca definitiva – che è una misura di sicurezza, definitiva dunque, a differenza del sequestro che è normalmente una misura cautelare e dunque provvisoria – i beni entrano a far parte del patrimonio dello Stato. L’Anbsc decide la destinazione del bene, versando al Fondo unico per la giustizia le somme di denaro.
Di norma, i beni mobili confiscati vengono venduti e il ricavato va al Fondo unico per la giustizia, insieme a eventuali somme di denaro confiscate (art. 48 co. 1 lettere a) e b) del Codice Antimafia).
I beni immobili - case, strutture, fabbricati, terreni e così via - sono mantenuti nel patrimonio dello Stato (per finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile o per essere utilizzati da altre amministrazioni pubbliche) oppure vengono trasferiti agli enti locali che potranno gestirli direttamente oppure assegnarli in concessione, a titolo gratuito, ad associazioni del terzo settore (art. 48 co.3).
Se questo non è possibile, sono destinati alla vendita con provvedimento dell'Anbsc (art 48 co.5) e sono predisposte una serie di limitazioni e condizioni per evitare che il bene venga riacquistato dai mafiosi, anche per interposta persona.
I beni aziendali sono mantenuti nel patrimonio dello Stato: l’Anbsc le può destinare all'affitto (a titolo oneroso o gratuito, ad esempio a cooperative di lavoratori dipendenti dell'impresa confiscata), alla vendita oppure alla liquidazione, se le altre due possibilità risultano impraticabili (art. 48 co.8). I relativi proventi confluiscono anch’essi nel Fondo unico giustizia (co.9).
Insomma: già in base alla normativa vigente è possibile per lo Stato “mettere a reddito” i beni confiscati alla mafia, in particolare affittandoli o vendendoli ai privati.
Qual è la situazione in concreto?
Come si legge nella relazione dell’Anbsc del 2017, al 28 febbraio di quell’anno risultavano censiti, in gestione, 16.696 immobili (fabbricati e terreni), 7.800 beni finanziari, 2.078 beni mobili, 7.588 beni mobili registrati e 2.492 beni aziendali. Ma “si tratta di numeri tendenzialmente sottostimati, in quanto il censimento deve ancora completarsi”.
Ma quanti di questi vengono venduti?
Sui beni mobili registrati (si tratta prevalentemente di mezzi di trasporto) la situazione è tutto sommato buona: il 23% viene venduto, il 19% distrutto, il resto viene ceduto gratuitamente o affidato a forze dell’ordine e vigili del fuoco.
I beni immobili, nel 2016, risultano interamente mantenuti dallo Stato nel proprio patrimonio (13%) o affidati agli enti territoriali (per fini istituzionali il 23%, per scopi sociali il 64%). Una situazione, questa, su cui ha avuto parole dure ad esempio Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione (Anac), secondo cui “bisogna abbattere il totem che impedisce la vendita [dei beni confiscati, n.d.R.], nel timore che i boss li riacquistino”.
I beni aziendali, e questo è il problema più grave sottolineato da numerosi osservatori, finiscono in liquidazione ben nel 95% dei casi contro un misero 4% di vendite e 1% di cessioni gratuite.
Il motivo principale, secondo quanto rilevato ad esempio dall’Istituto Bruno Leoni , “sembra risiedere nella natura stessa delle imprese mafiose. Prima del sequestro, esse godono del ‘vantaggio competitivo criminale’: i fornitori, intimiditi o collusi, concedono condizioni favorevoli; i potenziali concorrenti sono scoraggiati dalle ritorsioni; la sistematica evasione fiscale consente spesso una notevole liquidità; le regole sul lavoro e quelle ambientali sono del tutto neglette e l’attività ispettiva è inibita con intimidazioni o tangenti. Dopo il sequestro le condizioni di vantaggio scompaiono perché l’impresa si adegua alle regole”.
Oltre a questo pesano, secondo quanto riporta ad esempio un’inchiesta di Repubblica, il boicottaggio alle aziende confiscate che viene imposto dalla mafia alla popolazione, ai fornitori e via dicendo, e un atteggiamento spesso non collaborativo da parte delle banche che hanno magari un’ipoteca sul bene o comunque un credito da estinguere che ne impedisce la sopravvivenza sul mercato.
“In particolare le aziende confiscate possono essere divise, schematicamente, in due gruppi”, dice Angelo Mattellini, direttore della Cna Liguria (Confederazione nazionale dell’Artigianato e della piccola e media impresa), che si era occupata del tema alcuni anni fa. “Quelle che sono intrinsecamente mafiose, che stanno sul mercato solo in quanto tali: per queste il fallimento è inevitabile, anche se si pongono problemi di occupazione per i dipendenti che si trovano licenziati e vengono spinti a pensare che si stesse meglio quando c’era la criminalità al timone dell’azienda”.
“Ci sono poi invece aziende che potrebbero stare sul mercato, hanno asset e producono utili”, prosegue Mattellini. “Queste purtroppo spesso falliscono comunque, perché le procedure sono troppo lunghe e il personale dedicato troppo ridotto. Servirebbe un rafforzamento della struttura da un lato, e dall’altro una semplificazione delle procedure”.
Richieste queste che, come spiega Davide Pati, vicepresidente di Libera, sono state in parte accolte dall’ultimo governo in carica (Gentiloni). “La riforma del 2017 ha accolto molte delle nostre istanze e adesso è particolarmente importante attuarla”, spiega Pati. “Alcuni regolamenti attuativi sono già stati varati e servono a dare maggior trasparenza al procedimento di sequestro e confisca, a tutelare maggiormente i lavoratori delle aziende confiscate, a riformare e rafforzare l’Anbsc: l’organico passa da 30 a 200 unità”.
“Per risolvere il problema delle troppe aziende che pur potendo stare sul mercato ancora falliscono, secondo noi serve velocizzare il procedimento, aumentare la competenza dei soggetti coinvolti, aumentare la trasparenza e le informazioni disponibili nelle varie fasi. La nostra legislazione è presa a modello in Europa e nel mondo – conclude Pati –, il problema è darle la migliore attuazione possibile, anche sensibilizzando gli enti e le persone”.
Conclusione
Salvini esprime una legittima intenzione che fa perno su una normativa già esistente, ma che in concreto presenta dei problemi evidenti. I beni immobili confiscati non vengono venduti e, soprattutto, solo una parte minima delle aziende confiscate alla criminalità organizzata viene messa a reddito.
C’è dibattito su quali siano le azioni più efficaci da mettere in atto per risolvere il problema e “mettere a reddito” i beni confiscati alla mafia. Vedremo che linea d’azione intenderà prendere il prossimo ministro dell’Interno.
Se avete delle frasi o dei discorsi che volete sottoporre al nostro fact-checking, scrivete a dir@agi.it