Dopo averlo annunciato già la sera del 27 maggio, subito dopo la fine del tentativo di governo Conte, dal giorno successivo Luigi Di Maio è tornato a parlare della possibilità di mettere in stato d’accusa il Presidente della Repubblica. Ieri sera, il dietrofront: "L'ipotesi impeachment non è più sul tavolo", ha detto a Napoli il leader Cinquestelle. Il fascicolo dunque sembra archiviato nel momento stesso in cui sembra riaprirsi una chance di governo giallo-blu.
Ma la messa in stato d'accusa del capo dello Stato - argomento che sul tavolo c'è stato per quasi tre giorni - era un'ipotesi tecnicamente percorribile? Proviamo a fare chiarezza. Ripartendo dal video pubblicato sulla propria pagina Facebook da Di Maio, che ha dichiarato (min. 5.30): “Si sta iniziando a parlare di impeachment e dicono che non si può fare, che è assurdo (...). La messa in stato d'accusa si può fare, serve la maggioranza assoluta del Parlamento per mandare a processo il presidente davanti alla Corte Costituzionale. Se la Lega non fa passi indietro, qui non stiamo parlando di una possibilità ma di una certezza pressoché assoluta”.
Che cos'è l'Impeachment?
Quando si parla (impropriamente) di "impeachment", in Italia ci si riferisce alla procedura di messa in stato d'accusa per il Capo dello Stato prevista dall'articolo 90 della Costituzione, che recita:
"Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri".
Entrambi i reati non hanno un contenuto definito, non vengono cioè previste direttamente dalla legge le ipotesi ("fattispecie tipiche") in cui tali reati si configurano. A livello generale l'alto tradimento si configura quando il Presidente della Repubblica viola con dolo i suoi doveri di fedeltà alla Repubblica, anche nei rapporti con Stati stranieri. L'attentato alla Costituzione si verifica quando il Presidente della Repubblica, in modo consapevole, si comporta in modo infedele rispetto ai valori, ai comportamenti e alle istituzioni costituzionali.
Come funziona?
La decisione di mettere in stato d'accusa il Capo dello Stato, come prevede l'articolo 90, è del Parlamento. La procedura - disciplinata da un regolamento parlamentare - è molto complessa: il primo atto è presentare la richiesta formale di messa in stato d'accusa al presidente della Camera, corredata da tutto il materiale probatorio che la sostenga.
Il presidente della Camera trasmette poi il materiale a un apposito comitato, formato dai componenti della giunta del Senato e da quelli della giunta della Camera competenti per le autorizzazioni a procedere. Questo comitato valuta la legittimità dell'accusa - ha 5 mesi, prorogabili, per le indagini - e dopo aver raggiunto un verdetto a maggioranza presenta una relazione al Parlamento riunito in seduta comune, in cui chiede o di archiviare o di procedere.
Se chiede di archiviare, la procedura termina. Se chiede di procedere alla messa in stato di accusa, il Parlamento vota a scrutinio segreto e la approva se raggiunge la maggioranza assoluta a favore. Se approvata, la questione passa ai 15 giudici della Corte Costituzionale, a cui in questa particolare circostanza vengono affiancati 16 cittadini estratti a sorte da un elenco di persone aventi i requisiti per fare i senatori che viene compilato dal Parlamento ogni nove anni. L'accusa è rappresentata da "commissari" che vengono eletti dal Parlamento, sempre a scrutinio segreto. La sentenza è inappellabile.
I precedenti
Finora in Italia nessun Presidente della Repubblica è mai stato messo in stato di accusa in base all'articolo 90 della Costituzione. Nel corso della storia repubblicana ci sono stati casi in cui tale procedura è stata minacciata o persino avviata, ma non si è mai arrivati davanti alla Corte Costituzionale. Pare - si tratta di ricostruzioni di un colloquio il cui contenuto non è mai stato reso pubblico - che Saragat e Moro minacciarono Antonio Segni di attivare la procedura dell'articolo 90 nell'agosto 1964, visto il ruolo del Presidente della Repubblica nel progettare un colpo di Stato ("Piano Solo") insieme al generale De Lorenzo. Segni in quella circostanza fu colto da malore, venne quindi sostituito dal presidente del Senato Cesare Merzagora pochi giorni dopo e a distanza di alcuni mesi, a dicembre, rassegnò le dimissioni.
Una decina di anni dopo fu Giovanni Leone a subire la minaccia della messa in stato d'accusa da parte del PCI per le accuse - poi rivelatesi false - collegate allo scandalo delle tangenti Lockheed. Leone si dimise con sei mesi di anticipo e l'accusa non fu mai formalizzata.
Il terzo caso fu quello di Francesco Cossiga. Il 6 dicembre 1991 il Pds assieme ad altre forze d'opposizione presentò in Parlamento una richiesta di messa in stato d'accusa con ben 29 capi di imputazione, tra cui il sostegno a "Gladio". Il Comitato parlamentare si oppose e le accuse non ebbero seguito, ma Cossiga si dimise con due mesi di anticipo.
Anche Scalfaro fu minacciato nel 1993 da Forza Italia di impeachment, ma non si andò mai oltre le parole. Da ultimo, nel gennaio 2014, il M5s presentò una richiesta di messa in stato d'accusa contro Giorgio Napolitano, articolata in nove punti, tra cui la "espropriazione della funzione legislativa del Parlamento e l'abuso della decretazione d'urgenza". La richiesta dei grillini fu archiviata un mese dopo dal comitato parlamentare che esaminò in prima istanza le proposte.
La situazione attuale secondo due ex presidenti della Corte Costituzionale
Secondo la maggioranza dei costituzionalisti non ci sarebbero comunque state molte possibilità che Mattarella fosse ritenuto colpevole di attentato alla Costituzione (e meno che mai di alto tradimento). Cesare Pinelli, ordinario di diritto costituzionale alla Sapienza, intervistato da AGI ha detto che l'ipotesi "non sta né in cielo, né in terra". Ma Pinelli del resto ritiene che "il Presidente della Repubblica ha esercitato scrupolosamente le prerogative previste dalla Costituzione".
Forse più interessante allora il parere di Valerio Onida, il quale non ha risparmiato critiche a Mattarella per la decisione di porre il veto su Paolo Savona. L'ex presidente della Corte Costituzionale sostiene però che "debba considerarsi fuori luogo e pericolosa la reazione di chi ha addirittura parlato di proporre la messa in stato di accusa del Presidente, che presupporrebbe una ipotesi di 'alto tradimento o attentato alla Costituzione', di cui nel caso non vi è traccia".
Parole ancora più dure vengono da un altro ex presidente della Corte Costituzionale, Ugo De Siervo, secondo cui: "È molto grave anche solo ipotizzare una cosa del genere. La messa in stato d'accusa può essere per alto tradimento, e chiaramente non è questo il caso, e per attentato alla Costituzione. Certamente applicare la Costituzione non è attentare alla Costituzione, anzi, è intimidatorio verso chi deve far rispettare la Costituzione dire che la sua lettura non solo è sbagliata ma addirittura costituisce un reato".
Conclusione
Di Maio aveva sostanzialmente ragione nel sostenere che se una maggioranza in Parlamento vota compattamente per mettere il Presidente della Repubblica in stato d'accusa questa sia una possibilità concreta, anche se semplifica molto la procedura e ne dà per scontato l'esito. Ma è opinione diffusa tra i costituzionalisti, anche tra quelli che hanno criticato l'intervento di Mattarella su Paolo Savona, che questa accusa non avrebbe avuto alcun fondamento.
Dunque, se anche l'organo legislativo votasse compattamente - sia nell'apposito comitato sia in Aula - per l'impeachment, l'opinione maggioritaria è che la Corte Costituzionale non darebbe seguito alle eventuali accuse. Inoltre, per consentire la procedura di impeachment si dovrebbero attendere mesi prima di poter sciogliere le Camere e tornare a elezioni.