Il presidente della regione Veneto Luca Zaia ha scritto il 9 maggio su Facebook – a commento di un servizio di CartaBianca: “Se entro fine anno non scatteranno tagli alla spesa per 16,5 miliardi, da gennaio 2019 aumenterà l'IVA nelle due aliquote superiori. Lo dico da tempo: solo applicando i costi standard su modello veneto, si risparmierebbero da subito 30 miliardi, sistemando per un biennio il rischio che scattino le clausole di salvaguardia europee”.
Si tratta di un’affermazione in sostanza corretta.
L’aumento dell’Iva
L’aumento dell’Iva è previsto dalle “clausole di salvaguardia”, introdotte per la prima volta dal governo Berlusconi nel 2011 e poi in parte sterilizzate, e sempre rinviate, dagli esecutivi successivi.
Le clausole sono, in sostanza, un impegno per il futuro: servono a garantire il rispetto da parte dell’Italia dei vincoli di bilancio europei, per cui se determinate risorse non vengono trovate in altro modo (ad es. con la riduzione della spesa pubblica) allora scattano altre misure di finanza pubblica “automatiche” per rientrare nei parametri attesi. La più consistente è l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto.
Attualmente, dopo gli interventi del governo Gentiloni che, da ultimo, aveva “sterilizzato” le clausole di salvaguardia per il 2018, il prossimo aumento è previsto dall’articolo 1 comma 2 della Legge di Bilancio per il 2018.
Come spiega bene questo documento del Senato – dove viene anche ricostruita la storia delle clausole di salvaguardia posteriore al 2013 – in base alle clausole di salvaguardia nel 2019 l’aliquota Iva ordinaria (la più alta) dovrebbe passare dal 22% al 24,2% e l’aliquota Iva ridotta al 10% dovrebbe passare all’11,5%. Con tale misura si recupererebbero circa 12,5 miliardi di euro nel corso del 2019.
Per il 2020, poi, sono previsti altri aumenti: l’aliquota ordinaria dovrebbe salire al 24,9% (per poi stabilizzarsi al 25% dal 2021 in poi), e l’aliquota ridotta dovrebbe salire di un altro punto e mezzo, arrivando (e stabilizzandosi) al 13%. Queste misure servirebbero a trovare altri 19,1 miliardi per le casse dello Stato.
Non vengono toccate dalle clausole, invece, l’altra aliquota Iva ridotta al 5% e quella “super-ridotta” al 4%.
Dunque Zaia ha ragione a parlare di possibili aumenti delle due aliquote maggiori dell’Iva, ma è impreciso nel quantificare in 16,5 miliardi i tagli necessari alla spesa per evitare un simile scenario. La cifra infatti ammonta a 12,5 miliardi scarsi per il 2019.
I costi standard della sanità
Il Veneto è storicamente una delle regioni italiane col miglior rapporto tra spesa sanitaria e efficienza dei servizi erogati. È stata, fino all’anno scorso, tra le “regioni benchmark” ai fini del riparto delle risorse per il Servizio Sanitario Nazionale (cioè una di quelle regioni che fissano il livello di spesa/servizi a cui le altre devono tendere). È tuttavia stata esclusa – non senza proteste – a novembre 2017, quando le 5 regioni benchmark individuate come possibili per il 2018 sono state Toscana, Marche, Umbria, Emilia-Romagna e Lombardia.
Per quantificare i possibili risparmi per lo Stato italiano se tutte le regioni avessero una spesa adeguata ai costi standard – al di là che questi siano parametrati proprio sul Veneto o su altre regioni virtuose – possiamo consultare il rapporto SaniRegio2017, elaborato dal Cerm, centro di ricerche indipendente che si occupa di politica economica.
In base a dati relativi al 2014, il livello globale di spesa inefficiente “è stimato nel 16,2% della spesa storica, pari a circa 15,47 miliardi di euro”, e “se ad ogni Regione venisse sottratta una quota di finanziamento pari al suo livello di spesa inefficiente […] la riduzione di risorse si concentrerebbe maggiormente nelle regioni del sud passando da una riduzione del 3,1% e del 4,5%, rispettivamente nelle Marche e in Lombardia, a una riduzione del 28,0% e del 30,3% stimata, rispettivamente, per la Sardegna e la Calabria”.
Ma una riduzione secca delle risorse è difficile da ipotizzare, perché non porterebbe a un livello maggiore di efficienza anche le prestazioni. Si limiterebbe, per dire così, a eliminare la differenza di finanziamento tra le regioni che gestiscono con risultati migliori i propri soldi e quelle che se la cavano peggio.
Se si volesse colmare “l’output-gap negativo” – cioè il divario di efficienza tra le regioni che offrono un livello di servizi inferiore rispetto allo standard – bisognerebbe fare comunque investimenti nelle regioni inefficienti, che hanno più bisogno di aumentare i livelli quantitativi e qualitativi delle prestazioni offerte. Il problema, insomma, è più il modo in cui vengono spesi i soldi che la quantità delle cifre spese.
Il possibile risparmio globale di spesa eliminando la diversità di efficienza, secondo il Cerm, sarebbe infatti molto più ridotto: con il rispetto del criterio dei costi standard, ci si limiterebbe “al 2,5% della spesa storica, pari a circa 3 miliardi di euro”.
In questa tabella sono riassunti i dati regione per regione.
Conclusione
Zaia ha ragione nel prospettare un possibile aumento delle due aliquote Iva superiori nel 2019, ma è impreciso nel quantificare le risorse necessarie per evitare questo scenario: si tratta di 12,5 e non di 16,5 miliardi.
Sulla questione dei costi standard è però fuorviante: se è vero che, sottraendo a ogni Regione una quota di finanziamento pari al suo livello di spesa inefficiente, si risparmierebbero più di 15 miliardi all’anno (e dunque 30 miliardi in un biennio, come afferma il presidente del Veneto), è anche vero che per portare le regioni inefficienti al livello delle migliori servirebbero maggiori risorse. Secondo un autorevole studio, il risparmio possibile si ridurrebbe così ad appena tre miliardi all’anno.
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