Durante la cerimonia di apertura dell’anno accademico all’università “La Sapienza” di Roma, il 18 gennaio, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha citato il problema della fuga dei cervelli. Padoan ha detto che "ancora troppi giovani lasciano il nostro Paese per migliori opportunità all’estero" (qui il video, a 1h 26’ 20’’).
Ma quanto costa la cosiddetta “fuga dei cervelli”? Una stima recente ha posto il totale a circa un punto di PIL. Come vedremo, è probabilmente una valutazione troppo generosa.
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Oggi è normale che le persone si spostino all’estero per sviluppare al meglio le proprie capacità. Il problema della “fuga dei cervelli”, in inglese brain drain, nasce quando in un Paese arrivano meno persone con un alto livello di istruzione rispetto a quante ne partono. In quel caso c’è una perdita del cosiddetto “capitale umano”, e se dura molto a lungo ha effetti sulla capacità di innovazione e produttività del Paese.
Non è facile stimare il costo del fenomeno dal punto di vista numerico: la “fuga dei cervelli” è infatti soprattutto una perdita di conoscenze e potenzialità, che danneggia le prospettive di crescita future e si può quantificare solo con difficoltà. Qualche osservazione sulla stima recente è necessaria.
La stima del Centro Studi Confindustria
Una stima citata spesso negli ultimi mesi viene dal Centro studi di Confindustria (CSC), che ha posto "l’esportazione di capitale intellettuale" a circa un punto di PIL all’anno. Molti media hanno riportato questa stima con titoli che sintetizzavano così: «La fuga dei cervelli ci costa 14 miliardi l’anno». Vediamo il rapporto più da vicino.
La sezione che ci interessa del rapporto “Scenari economici” del Centro studi di Confindustria, pubblicato a settembre 2017, parte dall’osservazione che «l’inadeguato livello dell’occupazione giovanile sta producendo gravi conseguenze permanenti sulla società e sull’economia dell’Italia» (p. 26).
Come confermano i dati Eurostat, l’Italia ha uno dei tassi di occupazione più bassi d’Europa nella fascia 15-24 anni, con appena il 16,6 per cento di occupati: peggio di noi, nell’UE, solo la Grecia (13 per cento), con la media comunitaria lontanissima al 33,9 per cento.
La crisi ha colpito duramente l’occupazione dei giovani, che era sopra il 24 per cento nel 2007-2008. La conseguenza di questa scarsità di opportunità, scrive il CSC, è l’emigrazione. Tra il 2008 e il 2015 si è trasferito all’estero mezzo milione di italiani, dice il rapporto.
I dati Istat (nella sezione Popolazione e famiglie > Migrazioni) confermano, e guardandoli più da vicino si nota che il fenomeno è in netto aumento: si è passati dai 39.536 del 2008 ai 114.512 del 2016, per un totale nel 2008-2015 di 509.373. La metà è nella fascia di età tra i 15 e i 39 anni, molto più di quanto quella fascia sia rappresentata nella popolazione (dove è intorno al 28 per cento). Insomma, sono soprattutto i giovani nell’età della formazione e dell’ingresso nel mondo del lavoro ad andarsene.
Questa emigrazione è un costo molto consistente, dal punto di vista del capitale umano, perché la formazione di una persona ha naturalmente un costo per la società e le famiglie. Per quanto riguarda le famiglie, scrive il CSC: "Considerando che la spesa familiare per la crescita e l’educazione di un figlio, dalla nascita ai 25 anni, può essere stimata attorno ai 165 mila euro, è come se l’Italia, con l’emigrazione dei giovani, in questi anni avesse perso 42,8 miliardi di euro di investimenti in capitale umano", di cui 8,4 miliardi nel 2015.
Oltre alla spesa per le famiglie, la formazione è anche una spesa per la collettività. In Italia i laureati under 35 sono il 16,6 per cento, ricorda il CSC, e considerando quella percentuale anche per gli emigrati si può stimare che il costo per formare i giovani emigrati nel 2015, dalla scuola primaria all’università, sia stato di 5,6 miliardi.
Qui si può fare una precisazione. I dati forniti dall’Istat ci permettono di dire che, tra gli emigrati, la percentuale di laureati è doppia rispetto alla media nazionale: il 30,8 per cento nel 2015 (stessa percentuale del 2016). In totale, quasi 23 mila laureati hanno lasciato il Paese nel 2015, e quasi 25 mila l’anno successivo. Se contiamo che, per cinque anni di laurea, in Italia si spendono circa 50.000 euro l’anno a studente (stima ricavata dal rapporto OCSE sull’istruzione nel nostro paese, che pone la spesa per studente in Italia a 11.500 dollari l’anno nel 2014), possiamo dire che la stima del CSC vada rivista al rialzo per almeno 500 milioni di euro, per quanto riguarda i laureati: si arriverebbe così a 6,1 miliardi.
Il CSC somma quindi la spesa dello Stato per formare tutti gli emigrati e quella delle famiglie, arrivando a un totale di 14 miliardi per il 2015. Quell’anno il PIL a prezzi di mercato è stato di 1.642 miliardi: la stima complessiva del costo del “capitale umano” dell’emigrazione è quindi dello 0,85%.
Che cosa non funziona
Se ci soffermiamo a guardare la cifra più da vicino, però, molte cose non tornano. Quella del CSC non è infatti una vera e propria stima del costo della “fuga dei cervelli”: non tutti gli emigrati hanno un alto grado di istruzione, per prima cosa, e il calcolo include non solo spese sostenute dalla collettività per la formazione, ma anche quelle familiari per la crescita di un figlio.
Ma seguendo lo stesso ragionamento, altri grandi Paesi europei con un alto grado di mobilità tra i propri studenti arriverebbero a totali anche maggiori, perché è normale che un numero relativamente ampio dei giovani di un’economia avanzata scelgano di spostarsi dal proprio Paese d’origine.
Un’altra osservazione da fare è che un numero non trascurabile di italiani ritorna ogni anno nel nostro Paese. Nel 2015, circa 22 mila italiani hanno trasferito la loro residenza dall’estero all’Italia, e tra di loro la percentuale di laureati (34,6 per cento) è anche più alta rispetto agli emigrati. Anche seguendo il metodo usato dal CSC, la “perdita netta” del capitale umano è certamente inferiore.
Allo stesso tempo, una percentuale significativa della popolazione immigrata è in possesso di un titolo di studio superiore: nel solo 2014-2015, il numero di laureati di origine straniera presente in Italia è cresciuto di oltre 100 mila unità. Ha quindi più che bilanciato il totale dei laureati italiani emigrati, che nello stesso periodo sono stati circa 60 mila.
Guardare al solo movimento “in uscita” mostra comunque aspetti interessanti, come il forte aumento del fenomeno negli ultimi anni. La stima numerica del costo, invece, apre la strada a molte altre considerazioni che lasciano meno convinti.
In conclusione
Riassumendo: il fenomeno dell’emigrazione qualificata dall’Italia esiste ed è in crescita. La stima del CSC presenta però diversi aspetti problematici, come la considerazione del costo per la crescita e la formazione da parte delle famiglie per tutti gli emigrati, oppure la mancata considerazione di quanti sono tornati in Italia. Non è facile arrivare a una nuova stima che tenga conto di tutti i fattori, ma quella che la pone a un punto percentuale del PIL all’anno sembra generosa.