Lo scorso 23 ottobre a Misterbianco, nel catanese, Luigi Di Maio del M5S ha duramente attaccato il governo e il Pd, affermando: “Quando fanno lo show mediatico su Visco e Banca d’Italia per fare vedere che vogliono tutelare i risparmiatori si devono ricordare che quando hanno governato non solo hanno favorito le banche, ma in 20 minuti hanno fatto un decreto per salvare la banca della Boschi e mandare sul lastrico migliaia di risparmiatori”.
All’onorevole pentastellato ha risposto la sera stessa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, con un post su Facebook in cui scrive: “Mio padre come tutti i membri del consiglio d'amministrazione è stato commissariato dal nostro Governo, cioè mandato a casa proprio da noi. La banca non è stata salvata ma messa in risoluzione: esattamente il contrario di ciò che Di Maio afferma".
Vediamo dunque di chiarire: quando se ne è andato il padre di Maria Elena Boschi? E che cosa è successo alla banca? Di Maio non è molto chiaro: sembra di capire che intenda che la banca è stata “salvata” dallo Stato – che ha messo i soldi per appianare le perdite – a scapito dei risparmiatori, mentre Maria Elena Boschi sostiene che sia successo il “contrario”, cioè la risoluzione.
Il commissariamento
Pier Luigi Boschi – il padre di Maria Elena – è stato vicepresidente di Banca Etruria per otto mesi, dopo essere stato comunque parte del consiglio di amministrazione per alcuni anni. Come vicepresidente, è rimasto in carica dal 4 maggio 2014, quando l’Assemblea ordinaria dei soci elesse il nuovo consiglio d’amministrazione per gli esercizi 2014-2015-2016, al 10 febbraio 2015, quando l’istituto fu commissariato tramite il decreto n. 45 del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Il giorno successivo, l’11 febbraio 2015, Banca d’Italia nominò gli organi straordinari per l’amministrazione della banca toscana.
Ha dunque ragione la Boschi nel sostenere che, dal punto di vista formale, il padre sia stato commissariato (“mandato a casa”) proprio dal governo Renzi, di cui Maria Elena Boschi era il ministro per le Riforme.
La banca messa in risoluzione
Banca Etruria è stata messo in risoluzione, come ha detto Maria Elena Boschi. In questa procedura, non è stato lo Stato a farsi carico delle perdite, se intendiamo così il “salvataggio” di cui parla Di Maio (che dunque sul punto avrebbe torto).
Il caso di Banca Etruria e delle altre tre popolari è assai diverso dalla costosa operazione di salvataggio delle banche venete. I soldi pubblici, per la banca toscana, sono intervenuti, ma in un secondo momento e a titolo di rimborso per alcuni clienti.
Come spiega Banca d’Italia, i problemi di Banca Etruria emersero nel corso degli accertamenti ispettivi condotti tra marzo e settembre 2013, quando si scoprì che l’istituto di credito aveva sofferenze, incagli e perdite sui crediti superiori a quelle dichiarate per centinaia di milioni di euro.
Nei mesi successivi non si riuscì a risolvere la situazione e ulteriori accertamenti, condotti dalla Banca d’Italia tra novembre 2014 e febbraio 2015, constatarono un quadro aziendale ormai definitivamente compromesso.
Scattò allora, come già detto, il commissariamento. Questo durò fino al 22 novembre 2015 quando il governo, su proposta della Banca d’Italia, col decreto n. 183 dispose la “risoluzione” di Banca Etruria e di altri tre istituti di credito.
Che cos’è la risoluzione
Con “risoluzione”, in base alla nuova normativa europea (direttiva BRRD), si intende l’avvio di un processo di ristrutturazione gestito da autorità indipendenti, le autorità di risoluzione. In questo modo si evita l’interruzione nella prestazione dei servizi essenziali offerti dalla banca (ad esempio, i depositi e i servizi di pagamento), si cerca di ripristinare condizioni di sostenibilità economica della parte sana della banca e si liquidano le parti restanti.
Questa normativa europea è entrata ufficialmente in vigore il primo gennaio 2016. Ma il governo italiano ha in sostanza anticipato i tempi, recependone il contenuto col D. Lgs. 180/2015 del 16 novembre 2015. Grazie ad esso, secondo Banca d’Italia, è stato possibile applicare strumenti fino ad allora non previsti dal quadro normativo italiano.
In particolare, per Banca Etruria, e le altre tre popolari coinvolte nello stesso provvedimento (Banca Marche, CariChieti e CariFerrara), furono create “banche-ponte” (Nuova Banca dell'Etruria e del Lazio S.p.A., Nuova Banca delle Marche S.p.A., e così via), e una bad bank in cui far confluire i crediti deteriorati. Si fece poi ricorso al Fondo nazionale di risoluzione (FNS).
L’intervento di tale fondo ha permesso di colmare le perdite. Non tutte, però: solo quelle che non erano già state poste a carico di azionisti e creditori subordinati. L’aspetto importante, per quello che ci interessa, è che il FNS è finanziato dal sistema bancario. Le perdite imposte agli azionisti e ai creditori subordinati ammontano infatti a circa 870 milioni, ma ulteriori perdite pari a circa 1.700 milioni sono state assorbite dal Fondo di Risoluzione.
Il 10 maggio 2017 il percorso di risoluzione si è concluso, con la vendita della “nuova” Banca Etruria (insieme a Banca Marche e CariChieti) a UBI Banca.
I soldi pubblici
Qualche soldo pubblico è comunque stato destinato ad alcuni clienti di Banca Etruria (ma non alla banca, come abbiamo visto). Il governo Renzi, con un apposito decreto legge per le banche in liquidazione (Etruria e le altre tre), ha previsto rimborsi ai clienti delle 4 banche oggetto della procedura di risoluzione di novembre 2015 che avevano investito in obbligazioni (secondo alcuni criteri che non specifichiamo). Le quattro banche sono, lo ricordiamo, Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti.
La platea di chi ha diritto al rimborso è poi stata ulteriormente allargata dal decreto salva-risparmio, voluto dal governo Gentiloni e divenuto legge a febbraio 2017. Il termine per presentare la domanda di rimborso per gli obbligazionisti delle quattro vecchie banche è stato prorogato, con lo stesso provvedimento, fino a fine maggio 2017.
Il governo ha insomma ridotto o estinto il danno per migliaia di correntisti che, in base alla procedura di risoluzione “semplice”, erano stati danneggiati. Tra l’altro, su questi provvedimenti – che distinguono i risparmiatori in diverse categorie, in quanto a possibilità di accesso al rimborso – sono state mosse critiche di costituzionalità.
Di chi è il “merito”?
Bisogna però dire che, se andò così, non fu solo una libera scelta del governo. Furono gli uffici della Commissione europea, secondo la ricostruzione di Bankitalia, a precludere un’altra soluzione possibile, qualificando come “aiuto di stato” – vietato dalle norme europee, quindi – gli interventi di sostegno a favore di Banca Etruria deliberati (ma mai effettuati) dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD).
Gli interventi prevedevano che il FITD sottoscrivesse i necessari aumenti di capitale, ponendo le basi per il superamento delle crisi delle banche. Avrebbero avuto l’effetto di evitare la procedura di risoluzione. Ma fu appunto la Commissione europea a mettersi di traverso.
Le alternative alla risoluzione che dunque restavano in campo, sempre secondo Banca d’Italia, sarebbero state un bail-in più “pesante” – col sacrificio “di molti altri creditori, in particolare degli obbligazionisti e degli altri creditori non subordinati”, se si fosse intervenuti dopo il primo gennaio 2016, con la piena operatività della normativa europea – oppure la liquidazione coatta amministrativa delle banche.
In questo secondo caso i creditori della banca avrebbero subito un danno ancora maggiore, in quanto l’istituto di credito sarebbe stato commissariato e liquidato, e i loro crediti sarebbero stati ripagati solo parzialmente (eccetto i creditori privilegiati, che vengono rimborsati integralmente, e fatta salva la garanzia per i depositi fino a 100 mila euro).
Infatti si sarebbero dovuti spartire, in base alla percentuale e al tipo di credito detenuto, il residuo attivo della banca, risultante dopo l’eliminazione del passivo. La procedura concordataria in questo caso deve essere autorizzata da un tribunale.
Conclusione
Maria Elena Boschi ha sostanzialmente ragione. Suo padre è stato rimosso, insieme al resto del CdA, dall’atto di commissariamento. Successivamente la banca è stata messa in risoluzione, una procedura che ha messo l’onere principale delle perdite in carico a un fondo finanziato dal sistema bancario e non dallo Stato, e venduta a Ubi Banca. Altre iniziative del governo hanno permesso a molte persone danneggiate di ridurre le perdite, con soldi pubblici. L’opportunità o meno di quel decreto è un giudizio politico, ma sembra poco corrispondente alla realtà dipingere quanto successo come “salvare la banca della Boschi e mandare sul lastrico migliaia di risparmiatori”.
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