In un post su Facebook dello scorso 25 luglio Renato Brunetta, capogruppo alla Camera di Forza Italia, ha scritto: “Gli unici che hanno cancellato i vitalizi in essere sono stati i partiti del centrodestra durante l’ultimo governo Berlusconi che nel 2011 hanno deciso di eliminarli e lo hanno fatto concretamente nel 2012. Noi lo abbiamo fatto sul serio, Pd e M5s invece fanno una indegna sceneggiata incostituzionale che non andrà da nessuna parte”.
L’abolizione del 2011
La ricostruzione di Brunetta è scorretta. A cancellare i vitalizi non fu il governo Berlusconi ma il governo Monti, subentratogli il 16 novembre 2011, con il contributo dei partiti di centrodestra e di centrosinistra. Nessuno dei due schieramenti può rivendicare di essere “l’unico” ad aver cancellato i vitalizi.
In particolare fu il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che il 29 novembre si riunì a tale scopo con i presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani, a spingere la decisione dei rispettivi uffici di presidenza con cui vennero poi aboliti i vitalizi.
Stava infatti per essere varata la riforma sulle pensioni Fornero e, come ricostruito dall’allora deputato Pdl Giuliano Cazzola, il ministro “chiese che i deputati e i senatori mandassero un chiaro segnale nella medesima direzione della riforma che prese il suo nome. L’azione del ministro si era inserita, tuttavia, nel contesto di processi già in corso, anticipandone le scadenze”.
Le due Camere avevano infatti già espresso autonomamente l’intenzione di procedere in quella direzione. Il presidente Fini, il 19 novembre, aveva manifestato la generica volontà di intervenire sul tema e il Consiglio di presidenza di Palazzo Madama, con a capo Renato Schifani, aveva deciso all'unanimità il superamento dei vitalizi il 24 dello stesso mese.
Anche in precedenza, quindi durante gli anni del governo Berlusconi, erano circolate dichiarazioni sul superamento dei vitalizi. Si può citare ad esempio quella del questore della Camera in quota Pdl, Antonio Mazzocchi, che nell’agosto 2011 aveva già annunciato: “l’Ufficio di presidenza di Montecitorio ha deliberato la sostituzione dell'attuale istituto del vitalizio, a decorrere dalla prossima legislatura, con un nuovo sistema previdenziale, analogo a quello previsto per la generalità dei lavoratori”.
Prima dell’intervento della Fornero, tuttavia, non si era giunti a un risultato definitivo. Oltretutto la riforma – anche nella versione uscita dal Senato il 24 novembre - avrebbe iniziato ad avere effetto solo dalla legislatura successiva, per non intaccare i “diritti acquisiti” dei parlamentari in carica.
Dopo la riunione col ministro si decise invece di anticipare l’entrata in vigore al primo gennaio 2012, anche se non con effetto retroattivo (non si toccavano cioè i vitalizi già maturati dagli ex senatori e deputati) per evitare rischi di incostituzionalità. Il provvedimento fu votato dagli uffici di presidenza di Camera e Senato il 14 dicembre.
La nuova disciplina prevedeva il passaggio da vitalizio a pensione, per i parlamentari, calcolata col metodo contributivo – quello che in base alla riforma Fornero vale per tutti gli italiani – e che scatta solo se viene completata un’intera legislatura a 65 anni (a 60 se le legislature sono due o più).
Il dl Richetti
E veniamo al disegno di legge Richetti, che la Camera dovrebbe approvare il 26 luglio e che poi dovrà andare al Senato. Questo imporrebbe il ricalcolo col metodo contributivo per i vitalizi maturati in passato, che ad oggi non risentono della riforma del 2012. Si tratta di misure che – secondo le stime del presidente dell’Inps, Tito Boeri – riguardano 2600 ex parlamentari per una cifra che nel 2016 ha raggiunto i 193 milioni di euro, senza considerare gli incarichi al parlamento europeo e ai consigli regionali.
Partito Democratico e Movimento 5 Stelle litigano sulla paternità del provvedimento, col deputato pentastellato Danilo Toninelli che afferma: “Si scrive Richetti ma si legge Lombardi”, dal nome della deputata grillina che aveva avanzato una proposta simile per il superamento dei vitalizi.
I democratici hanno sicuramente ragione da un punto di vista formale, considerato che la proposta di legge in discussione vede come primo firmatario Matteo Richetti, deputato Pd.
È tuttavia vero che nel testo in discussione siano confluite anche altre proposte di legge, tra cui quella del M5S a prima firma Lombardi. Ma non solo. Sono state unificate anche le proposte di legge di Lega Nord, Scelta Civica, Sel, e di singoli deputati.
Il punto del M5S è tuttavia politico. I pentastellati rivendicano una sorta di paternità nella battaglia sui vitalizi, che avrebbe quindi costretto i democratici ad agire. Non è un tipo di affermazione che sia possibile verificare con certezza.
I rischi di incostituzionalità
Brunetta parla di “sceneggiata incostituzionale” a proposito del dl Richetti. Una posizione ostile che in Parlamento viene portata avanti da Forza Italia e dai centristi, mentre invece il progetto di abolizione ha formalmente il sostegno di Pd, M5S, Lega, Fratelli d’Italia, Sinistra Italiana e Mdp – Articolo 1.
I dubbi di costituzionalità affondano le proprie radici nel seguente problema: si vara una nuova disciplina per delle situazioni già concluse nel passato, dei “diritti acquisiti”. Non sarebbe costituzionalmente legittimo, in particolare, ricalcolare delle prestazioni che per anni sono state erogate col metodo retributivo - e a tutt’oggi ancora lo sono - con il metodo contributivo. A maggior ragione se i destinatari sono una particolare categoria e non la generalità dei pensionati.
Nelle parole di Brunetta: “Seguendo il precedente che seguirà a questo provvedimento tutte le pensioni potranno essere ricalcolate sulla base del sistema contributivo, che è molto ma molto meno vantaggioso del retributivo. Il risultato è che la stragrande maggioranza dei pensionati italiani si potrebbero ritrovare l’assegno pensionistico in essere decurtato del 30-40-50%”.
Anche dopo la riforma Fornero, infatti, per la grande maggioranza dei pensionati italiani è rimasto in vigore il calcolo retributivo. Quello contributivo riguarda solo i lavoratori andati in pensione successivamente. Compromettere questo principio dei “diritti acquisiti” per una sola categoria potrebbe in effetti risultare incostituzionale.
La Consulta, ad esempio, nel 2013 bocciò un comma del decreto legge 98/2011 che introduceva un contributo perequativo per le pensioni oltre 90 mila euro lordi. Un contributo che la Corte Costituzionale considerò di natura tributaria, ritenendo si determinasse “un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini”. Cioè non si poteva, secondo la Corte, imporre una tassa arbitraria che colpiva esclusivamente certi pensionati, anche se ricchi.
L’ex presidente della Corte Costituzionale, Valerio Onida, di recente ha espresso il parere sul dl Richetti secondo cui “si dovranno verificare in concreto gli effetti della misura per la vita delle persone che ne beneficiano. Per il momento non sappiamo ancora quanto e per chi incide il ricalcolo”.
Il rischio dunque c’è anche se pare meno evidente e scontato di quanto non affermi Brunetta.Se avete delle frasi o dei discorsi che volete sottoporre al nostro fact-checking, scrivete a dir@agi.it