Ospite a Otto e Mezzo lo scorso 8 giugno, il segretario della Lega Nord Matteo Salvini ha dichiarato: “Noi siamo pronti a votare anche un decreto che uniformi la legge su Camera e Senato in base a quello che aveva stabilito la Consulta, e poi si vota”.
A questa affermazione ha risposto il deputato del M5S Danilo Toninelli, ospite in studio, secondi cui “si può andare a votare senza fare decreti perché li farebbero ancora questi vecchi disastrosi partiti. Andiamo a votare con le leggi che ci sono”.
Si tratta di due affermazioni molto azzardate da un punto di vista costituzionale e si possono ritenere di fatto non realizzabili.
Si può fare una legge elettorale per decreto?
L’ipotesi di procedere sulla legge elettorale con un decreto legge viene per il momento rigettata dai costituzionalisti. In base all’articolo 77 infatti per procedere con decreto, infatti, servono i requisiti di “straordinaria necessità e urgenza”.
Al netto delle istanze politiche dei partiti e dei movimenti, nel momento in cui è in carica un governo che ha formalmente il sostegno di una maggioranza parlamentare e manca ancora quasi un anno alla scadenza della legislatura sembra difficile sostenere “necessità e urgenza” di un decreto in materia elettorale.
Sarebbe anche una cosa assolutamente inedita nella storia parlamentare italiana. Finora i decreti legge che hanno riguardato la materia elettorale hanno avuto contenuto procedurale, ad esempio la posticipazione della data o simili, mai sostanziale e meno che mai un intero sistema di voto.
Anche solo uniformare il sistema di Camera e Senato, come richiede la sentenza della Corte Costituzionale, da un lato ridurrebbe la gravità della forzatura costituzionale, ma dall’altro non metterebbe al riparo da un piano inclinato costituzionalmente pericoloso.
Il decreto legge deve essere infatti convertito da un voto del Parlamento e se, per ipotesi, alcune forze politiche facessero dell’ostruzionismo allora si correrebbe il rischio di avere un voto di fiducia non solo sulla materia elettorale (grave, ma già accaduto con l’Italicum) ma addirittura su un decreto legge. Si svilirebbe la discussione parlamentare su un atto nato non in Parlamento, ma per iniziativa del governo, e decadrebbero tutti gli emendamenti presentati da deputati e senatori.
Insomma, la centralità del Parlamento, che è fondamentale in questa materia che attiene alle “regole del gioco”, verrebbe gravemente compressa creando un precedente inedito e potenzialmente rischioso.
Secondo le indiscrezioni che trapelano dal Quirinale, Mattarella avrebbe già manifestato la propria indisponibilità a lasciare che si proceda su questa strada. Ed è il Presidente della Repubblica che, in base alla Costituzione, deve emanare i decreti aventi valore di legge.
E votare senza nuova legge elettorale?
Anche l’alternativa proposta da Toninelli sembra, da un punto di vista costituzionale, difficilmente praticabile. La sentenza della Consulta sull’Italicum, che pure lascia un sistema teoricamente “suscettibile di immediata applicazione”, all’ultima riga del “Considerato in diritto” afferma: “La Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee”.
In sintesi, secondo la Corte la Costituzione impone che i sistemi elettorali di Camera e Senato, anche se diversi, non portino ad avere due maggioranze di segno opposto nelle due ali del Parlamento. Un rischio che non sarebbe eliminato dall’attuale sistema elettorale, uscito dalla sentenza.
Le differenze tra Camera e Senato sono infatti significative:
- per Palazzo Madama vige un sistema proporzionale puro, con una soglia su base regionale dell’8% per i partiti che corrono da soli, del 3% per i partiti all’interno delle coalizioni, del 20% per le coalizioni. È prevista la preferenza unica. Ogni collegio ha ampiezza regionale.
- per Montecitorio vige un proporzionale con premio di maggioranza per la singola lista che raggiunga il 40%. Se nessuno raggiunge tale soglia il sistema è un proporzionale puro con sbarramento al 3%. Non sono previste le coalizioni. Il Paese è diviso in 100 collegi plurinominali, in ciascuno dei quali vengono eletti tra i 5 e i 7 candidati. In ogni collegio i partiti presentano dei listini di 5-7 nomi: il primo candidato è bloccato (viene cioè eletto automaticamente se per quel partito scatta il seggio), mentre per gli altri c’è la preferenza. L’elettore ha a disposizione due preferenze, una per un candidato maschio e una per un candidato femmina. Ci si può candidare come capolista in più collegi (fino a dieci). Se si viene eletti in più di un collegio, verrà tirato a sorte quello in cui il candidato viene dichiarato eletto.
Anche in questo caso il Presidente della Repubblica ha dichiarato in passato, e spesso ribadito, la sua indisponibilità a mandare il Paese alle urne con un sistema che non sia stato reso omogeneo. A un anno dalla scadenza della legislatura, a meno che crolli l’attuale maggioranza e divenga impossibile la formazione di un altro esecutivo, è improbabile secondo autorevoli costituzionalisti che il Colle cambi la sua posizione.
Conclusione
Sembra dunque che, almeno per ora, da un punto di vista costituzionale non ci sia spazio per scappatoie. Un intervento sul sistema elettorale è necessario, e non può essere il governo con un decreto, ma deve essere il Parlamento con una legge, a regolare la materia. Altrimenti, a situazione attuale invariata, è improbabile che il Quirinale sciolga le Camere o emani un decreto come quello richiesto da Salvini.
Ad ogni modo, come fanno notare alcuni costituzionalisti, se lo stallo dovesse protrarsi fino a ridosso della scadenza della legislatura, allora Mattarella potrebbe anche accettare la strada del decreto o quella di mandare il Paese al voto con la legge uscita dalla sentenza della Corte Costituzionale.
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