La settimana scorsa abbiamo verificato come i dati sul valore della produzione industriale certifichino, nel 2017, il sorpasso della Francia sull’Italia. Ma basta questo per dire che non siamo più la seconda manifattura d’Europa? Abbiamo contattato diversi esperti e i pareri sono discordanti.
Come riportato anche da altre fonti di stampa, c’è infatti chi sostiene si debba guardare più al valore aggiunto che al valore della produzione, oppure che anche il numero degli occupati vada tenuto in considerazione. Secondo un altro esperto, bisogna invece guardare al rapporto tra fatturato netto e valore aggiunto, per stabilire così il cosiddetto “grado di industrialità” di un Paese.
Il dibattito è aperto e lo stesso servizio statistico della Commissione europea - Eurostat - ci ha detto che non è facile stabilire quale sia l’indicatore, o l’insieme di indicatori, più adeguato da osservare.
Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza e di trarre qualche conclusione.
Come si faceva in passato?
Negli anni passati, quando i politici e i media hanno evidenziato il ruolo dell’Italia come seconda potenza manifatturiera d’Europa, la loro fonte è spesso stata il rapporto “Scenari industriali”, elaborato dal centro studi di Confindustria.
Il report si è affidato, negli anni, a indicatori diversi per stabilire questo secondo posto. Ad esempio, nel 2015 attribuiva all’Italia il secondo posto nella classifica stilata in base alla “Quota percentuale sulla produzione manifatturiera mondiale”. Quindi il criterio adottato è quello del valore della produzione.
Nel 2017 il medesimo rapporto stilava la classifica, con ancora l’Italia al secondo posto, in base alla “Percentuale sul valore aggiunto mondiale”.
Abbiamo contattato il Centro studi di Confindustria e abbiamo parlato con il dottor Livio Romano, il quale ci ha spiegato meglio la situazione.
"Fino a qualche anno fa usavamo il criterio del valore della produzione industriale, perché quello era il dato che avevamo a disposizione per i confronti internazionali, ma più di recente ci siamo resi conti che, essendo un dato lordo, rischiava di essere fuorviante", spiega Romano. "Guardando alla produzione, vediamo quanto vendono le imprese di un dato Paese ma non capiamo quanto valore venga prodotto da quel Paese. Faccio un esempio: se importo gran parte delle materie prime e dei servizi che mi servono per finire il prodotto che poi vendo, del ricavato mi rimane in tasca solo una piccola parte. Dunque abbiamo visto che aveva più senso guardare al valore aggiunto".
"In ogni caso poi il dato Eurostat, anche sul valore aggiunto, è parziale", conclude Romano, "perché, a parte che non prende in considerazione l’economia sommersa, soprattutto guarda solo alle società di capitali, escludendo quindi tutto il mondo dell’artigianato e in generale delle società di persone, molto importante in Italia".
Insomma, il rapporto Confindustria è passato di recente dal totale della produzione al valore aggiunto. Andiamo a vedere cosa si intende di preciso con i diversi indicatori.
Valore della produzione o valore aggiunto?
Il valore della produzione - l’indicatore scelto in un primo momento da Confindustria e poi abbandonato - è il valore totale di quanto viene prodotto, calcolato in base alle vendite. Quindi il dato registra, in buona sostanza, quanti miliardi di beni ha venduto il sistema industriale italiano. Ovviamente più è popoloso e sviluppato un Paese, più sarà facile che abbia un valore della produzione più elevato, rispetto a un Paese più piccolo o con un Pil pro capite più basso.
Come abbiamo anticipato, se guardiamo al valore della produzione in numeri assoluti, nel 2017 la Francia ha superato l’Italia nel settore manifatturiero: quasi 890 miliardi di euro contro quasi 884 miliardi.
Veniamo al secondo indicatore, il valore aggiunto. Quest’ultimo è, come ci ha spiegato Riccardo Gallo, professore di Economia industriale a la Sapienza, "quello che l’impresa ci mette di suo in quello che vende".
Un’industria infatti trasforma le materie prime in prodotti finiti, grazie alla propria struttura. Poi vende questi prodotti finiti sul mercato. "Se al totale delle vendite - il fatturato - sottraiamo i consumi sopportati dall’impresa (il costo delle materie prime, l’energia, eventuali consulenze esterne e via dicendo)", spiega Gallo, "otteniamo il valore aggiunto".
Con il valore aggiunto l’impresa poi paga i propri lavoratori dipendenti, gli ammortamenti, gli interessi sul capitale prestato, le tasse e remunera il capitale di rischio investito dai soci, pagando loro gli utili.
A parità di dimensioni, quindi, un Paese che abbia industrie che si occupano prevalentemente di estrarre materie prime avrà un valore aggiunto più basso rispetto un Paese le cui industrie sono specializzate nell’alta tecnologia.
Se guardiamo al valore aggiunto, i dati Eurostat per il 2017 confermano la seconda posizione dell’Italia, dietro alla Germania ma davanti alla Francia (257 miliardi contro 232 miliardi) e anche per il 2018 (263 miliardi contro 232 miliardi). Anzi, se guardiamo ai dati degli ultimi anni si nota come il divario tra Italia e Francia sia andato in crescendo costante negli ultimi cinque anni: nel 2013 era di appena tre miliardi (222 miliardi contro 219), sempre a favore dell’Italia.
Questo significa, come abbiamo visto, che nel 2017 la Francia produce e vende di più rispetto all’Italia, ma l’Italia “brucia” una parte inferiore di quel valore della produzione nei consumi della filiera industriale. Dunque, alla fine produce un valore aggiunto superiore.
Quale dei due Paesi merita dunque il titolo di seconda potenza industriale del continente? Il dibattito, come detto, è aperto.
Il dato sugli occupati
Un altro dato emerso nel dibattito è quello sul numero degli occupati. Questo di per sé non sembra particolarmente indicativo, poiché un Paese poco sviluppato potrebbe utilizzare molti più operai per produrre meno di quanto non serva a un Paese tecnologicamente più avanzato.
Ma visto che il confronto è tra due Stati molto simili per dimensioni demografiche e sviluppo economico, come l’Italia e la Francia, il dato ha una sua rilevanza.
Sempre secondo Eurostat, gli occupati nel settore manifatturiero in Francia nel 2018 sono pari a 2,56 milioni, cioè al 9,1% del totale degli occupati. In Italia lo stesso anno erano pari a 3,95 milioni, pari al 15,6% del totale degli occupati. Dunque gli occupati nell’industria sono significativamente di più nel nostro Paese rispetto alla Francia, sia in numero assoluto che in percentuale.
Il grado di industrialità
Un altro indicatore a cui si può guardare poi è il “grado di industrialità”. Questo parametro ci è stato suggerito dal professor Gallo, e misura il rapporto tra il fatturato dell’industria e il valore aggiunto.
Se, ad esempio, il mio fatturato è pari a 100 e il valore aggiunto è pari a 10, avrò un grado di industrialità del 10%. Questo indice, espresso in percentuale, non ci dice nulla sulle dimensioni del sistema industriale di un Paese ma è molto utile per misurarne la capacità di creare ricchezza tramite la manifattura.
"L’Italia negli ultimi vent’anni ha subito un crollo di questo indicatore", ci dice ancora Gallo. "Il nostro dato a fine anni ‘90 era vicino al 26-27 per cento. Poi è crollato al 16% nel 2014, per poi risalire negli anni dei governi Renzi e Gentiloni vicino al 20%".
Ma visto che questo dato non è influenzato dalle dimensioni di un Paese, ecco che al vertice della classifica europea non troviamo la solita Germania. "Il Paese europeo col maggior grado di industrialità - conclude Gallo - è la Svizzera". Uno Stato piccolo dunque, ma capace più di chiunque altro di creare ricchezza tramite l’industria.
Questo indice tuttavia non ci sembra il più adeguato per stilare una classifica delle maggiori potenze industriali europee, in quanto potrebbe - come in effetti fa - porre al vertice Stati piccoli e molto efficienti, che tuttavia vendono molti meno miliardi di beni, producendo molti meno miliardi di valore aggiunto e occupano molti meno milioni di lavoratori.
Conclusione
Come abbiamo visto ci sono diversi fattori che si possono prendere in considerazione per valutare il sistema industriale di un Paese.
Semplificando al massimo quanto abbiamo visto finora, ci sembra si possa dire che nel 2017 per la prima volta il settore manifatturiero francese è diventato di dimensioni maggiori rispetto a quello italiano. Quest’ultimo è però ancora saldamente davanti sia per capacità di creare ricchezza (il valore aggiunto) sia per capacità di creare lavoro (il numero di occupati).
In ogni caso ricordiamo che oramai il manifatturiero in Italia (dati 2017) pesa per meno del 15% del Pil, e in Francia per poco più del 10%.
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