«L’innovazione tecnologica porta via posti di lavoro», ha detto il 17 gennaio Matteo Renzi nel corso del suo intervento a Matrix su Canale 5 (al minuto 24’ 41’’). Renzi stava parlando delle difficoltà e delle opportunità che portano i cambiamenti di oggi nel mercato del lavoro.
Il segretario del PD fa riferimento a un dibattito, in corso da diversi anni ma intensificatosi negli ultimi mesi, sugli effetti dell’innovazione - e in particolare dell’automazione - sui posti di lavoro. Il concetto, ripetuto con altre parole da Renzi, che «i robot rubano il lavoro» è diventato una sorta di luogo comune.
Ma è davvero così? La risposta in breve è: se guardiamo al passato, no. Se guardiamo ad oggi e al futuro - come spesso accade - il quadro è più incerto.
Un vecchio dibattito
Che il progresso tecnologico elimini alcuni lavori manuali non è certo una novità. Se pensiamo alla rivoluzione industriale del XIX secolo, è chiaro come l’introduzione delle macchine abbia avuto effetti sui tipi di lavori nelle fabbriche. Nel secolo scorso il processo è continuato, tanto che già negli anni ’60 il presidente degli USA John F. Kennedy descriveva come sfida del decennio «mantenere la piena occupazione in un tempo in cui l’automazione prende il posto degli uomini»
Allo stesso tempo, però, l’innovazione crea nuove professioni e aumenta la produttività dei lavoratori, che più di altri fattori è il vero motore della crescita economica e del benessere. L’automazione permette di creare più beni in meno tempo, e questa è una buona cosa - come spiegano i manuali di economia nelle loro prime pagine.
Molti esperti hanno anche sottolineato che, negli ultimi due secoli, l’automazione è solo cresciuta, eppure i livelli di disoccupazione non sono saliti alle stelle. Anzi, il tasso di occupazione è aumentato - con qualche oscillazione - in tutti i paesi occidentali. Un gruppo di esperti ed economisti americani ed europei riuniti dell’IGM Forum ha mostrato un certo consenso sul fatto che, storicamente, l’automazione non abbia ridotto l’occupazione negli Stati Uniti. Tutto bene quindi? Non proprio.
I robot e l’industria
Alcuni studi pubblicati di recente hanno causato preoccupazioni inedite. Partiamo da un settore specifico: l’industria manifatturiera. A marzo 2017, uno studio condotto su alcune zone industriali USA e riferito al periodo tra 1990 e 2007, del celebre economista del MIT Daron Acemoglu insieme a Pascual Retrepo della Boston University ha concluso che l’introduzione di robot negli impianti causava perdita di posti di lavoro e riduzione dei salari. Un articolo del New York Times lo presentò allora come «il primo studio a quantificare effetti ampi, diretti e negativi dei robot».
Sul piano dell’occupazione, gli economisti tendono a dire che gli effetti dell’innovazione siano sì la distruzione di posti di lavoro, ma allo stesso tempo la creazione di altri in differenti settori dell’economia. Gli autori dello studio del 2017 hanno però rilevato che la creazione di altre opportunità è stata molto ridotta. Magari succederà in futuro, aggiungono, ma è difficile che chi ha lavorato per molti anni in una fabbrica di auto avrà le competenze necessarie a reinventarsi in un settore diverso.
Se allarghiamo lo sguardo dall’industria all’economia nel suo complesso, gli esperti sottolineano effetti diversi rispetto all’aumento della disoccupazione. Il gruppo di economisti americani ed europei dell’IGM Forum di Chicago si è mostrato infatti in maggioranza d’accordo sul fatto che l’automazione è tra le cause della stagnazione dei salari che si è vista negli anni recenti, nonostante l’aumento della produttività. Non perdita di posti di lavoro, quindi, ma diminuzione (o mancata crescita) degli stipendi.
Un altro fenomeno notevole è la cosiddetta “polarizzazione dei lavori”. I nuovi posti di lavoro creati negli ultimi decenni, nelle economie più sviluppate, tendono a concentrarsi in due settori: quelli a maggiore specializzazione e quelli a minore. L’automazione ha ridotto il numero degli operai nelle catene di montaggio; allo stesso tempo, nella nostra economia sono aumentati i manager e i pubblicitari, ma anche badanti, addetti alle pulizie e alla sicurezza, camerieri. Negli ultimi anni sono arrivati cambiamenti che riguardano proprio queste ultime categorie.
E in futuro?
La novità maggiore è infatti che, con le ultime innovazioni tecnologiche, non sono solo i lavori nell’industria ad essere direttamente minacciati. Un altro degli studi più famosi, uscito nel 2013 e firmato da Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne dell’università di Oxford, concludeva che il 47 per cento degli occupati negli Stati Uniti era in una professione messa a rischio dall’automazione.
Quello studio, ed altri simili che sono seguiti, hanno convinto molti che i progressi nel machine learning (o “apprendimento automatico”) avranno un impatto profondo in ambiti molto lontani, che vanno dalla logistica alla diagnostica medica.
Oggi infatti il rischio che corre un tipo di lavoro, come ha ben riassunto l’Economist, non è tanto legato al livello di preparazione necessario per farlo - leggere una radiografia non è cosa da tutti - ma a quanto quel lavoro sia “di routine” o meno. I computer sono molto bravi a ripetere (a volte meglio) operazioni relativamente semplici e abitudinarie, mentre non hanno spazio in campi in cui è richiesto un pensiero creativo. Tra i settori in cui esistono già oggi startup che sostituiscono gran parte del lavoro umano ce ne sono alcune che interessano avvocati, chirurghi, giornalisti e piloti di linea.
Nel 2016, un report della società di ricerche di mercato Forrester stimava che il 6 per cento dei posti di lavoro USA si perderanno per effetto dell’automazione e dell’intelligenza artificiale entro il 2021.
Preoccupati? Se l’ansia per il vostro lavoro è cresciuta, a partire dagli studi di Frey e Osbourne è stato creato un sito che, inserendo la vostra professione, mostra la possibilità - in percentuale - che venga sostituito dai computer e/o dai robot. Si può consultare qui.
In conclusione
Matteo Renzi ha ragione a dire che «l’innovazione porta via posti di lavoro»: il grande dubbio - su cui nessuno ha risposte definitive - è quanti ne sia in grado di creare.
In base a quanto si può osservare nel passato recente, l’innovazione tecnologica ha causato grandi cambiamenti, elimina alcuni lavori e ne crea altri, ma negli ultimi anni è stata un problema soprattutto per il livello delle retribuzioni. Alcuni studi hanno però mostrato effetti molto negativi nel settore della manifattura.
In futuro, andremo probabilmente incontro a una nuova ondata di sostituzione dei lavori “di routine”, senza riguardo per il livello di preparazione necessario a svolgerli. L’economia sarà in grado di creare altrettanti lavori diversi, se non addirittura di più? La domanda è per il momento senza risposta.