Il Movimento 5 Stelle è di recente stato investito da una serie di scandali riguardo i suoi candidati. Alcuni, parlamentari uscenti, hanno evitato con trucchi contabili di versare il contributo previsto a un fondo che dà sostegno alle piccole e medie imprese. All’inizio si parlava di una decina di pentastellati coinvolti ma pare che il numero sia destinato a salire.
Altri, nuovi ingressi, sono invece risultati legati alla massoneria. L’appartenenza a una loggia non è, per la legge italiana, un ostacolo a candidarsi in Parlamento. Tuttavia il Movimento 5 Stelle aveva stabilito – art. 6 lettera h) del Regolamento per la selezione dei candidati M5S alle elezioni politiche del 4 marzo – un divieto esplicito.
Di qui la richiesta del partito agli “indesiderati” di fare un passo indietro. Ma è possibile ritirare la propria candidatura, una volta depositate le liste elettorali? E cosa ne sarà di quei candidati che non vogliono assecondare le richieste del Movimento?
Il ritiro della candidatura
Per spiegare come funzionino i meccanismi elettorali partiamo dal caso di due parlamentari uscenti, e candidati nel 2018, del M5S: Andrea Cecconi e Carlo Martelli.
I due, accusati insieme agli altri di non aver versato tutto il dovuto, avevano annunciato via web – ma Cecconi è sparito da tutti i social network, quindi resta la testimonianza solo di Martelli – di “rinunciare all’elezione”.
Questo perché, in base alla normativa elettorale vigente, non sembra prevista la possibilità di “rinunciare alla candidatura”.
La questione era già emersa in riferimento allo scandalo Dessì, candidato M5S al Senato nel Lazio, sospettato tra le altre cose di essere vicino al clan degli Spada. Diverso invece il caso dell’ammiraglio Rinaldo Veri, inizialmente candidato al Senato nel Lazio, che ha potuto ritirare la propria candidatura – era già consigliere comunale a Ortona in una lista civica – perché le liste elettorali non erano ancora state chiuse.
Una volta chiuse le liste, cosa avvenuta il 31 gennaio scorso, chi è candidato tale resta. Se viene eletto – e questo sarebbe proprio il caso di Cecconi e Martelli, candidati in posizioni sicure – può ovviamente dimettersi e far subentrare il primo dei non eletti della propria lista.
Il parere di Ainis
Sulla possibilità di rinunciare alla candidatura si è aperta una discussione, dopo che l’autorevole costituzionalista Michele Ainis ha sostenuto lo scorso 15 febbraio, dalle colonne di Repubblica, che l’impossibilità di ritirare la candidatura sia una “fake news”, smentita dalla stessa legge elettorale. Vediamo le argomentazioni più da vicino.
L’articolo 22 comma 6 ter del testo unico delle leggi elettorali, modificato dal Rosatellum, disciplina infatti la modifica della composizione delle liste nei collegi plurinominali da parte dell’Ufficio centrale circoscrizionale “a seguito di eventuale rinuncia”. Per Ainis dunque sarebbe sufficiente presentare la dichiarazione di rinuncia autenticata da un notaio, “alla cancelleria della Corte d’Appello o del Tribunale del capoluogo della regione”. A quel punto al rinunciante subentra un “candidato supplente”.
Tuttavia la questione non è semplice come la dipinge Ainis. Innanzitutto è sicuramente impossibile rinunciare per un candidato in un collegio uninominale (come nel caso, ad esempio, di Andrea Cecconi), in quanto qui non esiste la figura del supplente. Lo ha confermato ancora di recente l’Ufficio centrale nazionale (decisione n. 23/ric/2018, del 3 febbraio) a proposito di un candidato deceduto.
Per quanto riguarda dunque i soli collegi plurinominali, c’è dibattito sulla questione delle tempistiche: secondo Ainis sarebbe possibile rinunciare fino all’ultimo momento, secondo altri fino alla chiusura definitiva delle liste elettorali – avvenuta appunto il 31 gennaio.
Ci sono diversi elementi a sostegno della seconda tesi: ad esempio, gli italiani residenti all’estero hanno già iniziato a votare, e non si vede come sarebbe possibile sostituire ora un candidato – e modificare di conseguenza un listino – su cui gli elettori hanno già iniziato ad esprimersi.
Inoltre, la macchina organizzativa del Viminale è già in moto e deve stampare milioni di schede, registri, elenchi e via dicendo: non è chiaro come sia conciliabile una possibilità di ritirarsi “fino all’ultimo momento” con le esigenze pratiche del Ministero. Attenderemo l’eventuale verdetto della Cassazione, se sarà investita nei prossimi giorni dalle richieste di rinuncia dei candidati nei collegi plurinominali del M5S, per risolvere con certezza la questione.
Le dimissioni
Veniamo allora a che cosa succede dopo le elezioni. Anche le dimissioni, infatti, sono una questione complessa: innanzitutto non sono obbligatorie, quindi un candidato che fosse eletto al Parlamento potrebbe sempre cambiare idea finita la campagna elettorale e tenersi il seggio.
Anche gli accordi di natura privata che sanzionerebbero le eventuali mancate dimissioni – le carte che, ad esempio nel caso Dessì, il M5S avrebbe fatto firmare – potrebbero risultare nulli. Se impugnati davanti a un giudice, potrebbero essere ritenuti in contrasto con l’articolo 67 della Costituzione, quello che garantisce a tutti i parlamentari il diritto/dovere di rappresentare la nazione e di esercitare le sue funzioni senza vincolo di mandato, e con l’articolo 23, secondo cui “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
Se poi anche il parlamentare fosse coerente e presentasse le proprie dimissioni, la procedura resta complicata: bisogna farne richiesta alla camera di appartenenza, fornendo le proprie motivazioni, e poi sperare che i propri colleghi votino (a scrutinio segreto) a maggioranza per accettarla.
Non sono mancati casi in cui l’Aula non ha accettato le dimissioni di un onorevole, che quindi ha mantenuto il seggio. Esemplare il caso di Giuseppe Vacciano: eletto col M5S nel 2013, nel 2015 annunciò l’intenzione di dimettersi perché non condivide più la linea del Movimento, ma da allora fino ad oggi – in ben cinque occasioni – il Senato ha sempre respinto la richiesta di accettare le sue dimissioni.
Insomma, il Movimento 5 Stelle non ha alcun modo di garantire che i candidati “impresentabili” che oramai sono nelle sue liste – coinvolti nello scandalo bonifici, ex massoni o comunque indesiderati come Dessì – si dimettano una volta eletti in Parlamento.
Le sanzioni per i ribelli
Ma chi non accetta di fare un passo indietro – o meglio, di “dichiarare di fare un passo indietro”, visto che come detto non è possibile né ritirare la candidatura né obbligare un candidato eletto a dimettersi – a quali conseguenze può andare incontro?
Di nuovo partiamo da un caso concreto, quello di Lello Vitiello, candidato del M5S nel collegio uninominale di Castellammare di Stabia per la Camera dei deputati ed ex membro di una loggia massonica. “Essendosi rifiutato di rinunciare spontaneamente alla candidatura e all'elezione con il M5S – comunica il Movimento –, Lello Vitiello viene diffidato dall’utilizzo del simbolo e non può essere eletto con il M5S”.
In concreto, significa che il M5S diffida Vitiello dall’utilizzare il simbolo del Movimento per la sua campagna elettorale. Se lo farà rischia (ex art. 7 c.c.) una denuncia e una richiesta di risarcimento danni.
Se sarà eletto, poi, Vitiello potrà dichiarare di appartenere al gruppo del M5S alla Camera, ma il gruppo avrà facoltà di espellerlo.
Tuttavia l’espressione “non può essere eletto con il M5S” risulta fuorviante, in quanto sulla scheda elettorale che si troveranno di fronte gli elettori il 4 marzo il nome di Vitiello sarà compreso proprio nelle liste del Movimento e dunque, se sarà eletto, lo sarà “con” il M5S.
Conclusione
Le persone che risultano candidate col Movimento 5 Stelle e ritenute da questo incompatibili col proprio statuto, o comunque indesiderabili, restano necessariamente candidate alle prossime elezioni.
Se saranno eletti potranno presentare – ma non c’è nessun obbligo né alcuna possibilità di obbligarli giuridicamente – le proprie dimissioni. Non è oltretutto scontato che la camera di appartenenza accetti tali dimissioni, come hanno dimostrato casi anche della scorsa legislatura.
I candidati a cui viene interdetto l’utilizzo del simbolo del M5S devono astenersi dall’utilizzarlo in campagna elettorale, altrimenti rischiano conseguenze giudiziarie. Ma sulla scheda il loro nome sarà comunque associato a quello del Movimento.
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