Il 90% degli italiani parla di cibo e la maggior parte di loro, più del 70%, si informa online, ma solo il 6% quando cerca notizie lo fa su siti istituzionali. Il rischio è quello di imbattersi in fake news, informazioni false e dannose messe in circolazione per sostenere tesi predefinite, con l’unico scopo di inquinare il panorama informativo. Un problema tutt’altro che relativo, se si pensa che lo scorso anno 3 italiani su 4 hanno creduto almeno a una bufala.
Il settore più tormentato dal dilagare di queste false notizie è quello della produzione e del consumo delle proteine animali: “Si mangia troppa carne”, “la carne che mangiamo è piena di ormoni e antibiotici”, “la carne provoca il cancro”, “la sua produzione consuma troppa acqua e inquina”. Ecco 5 verità sulla carne passate al setaccio per festeggiare oggi la giornata mondiale dell’hamburger.
1) "In Italia mangiamo 79,1 kg di carne all’anno. Troppa"
Secondo Carni Sostenibili (progetto per il supporto di studi scientifici avviato nel 2012 dal 2012 da un gruppo di operatori del settore zootecnico) le stime si riferiscono ai consumi apparenti, che considerano anche le parti non commestibili. In Italia, infatti, in media il consumo reale è di circa 37,9 Kg di carne all’anno. C’è qualcosa che non viene preso in considerazione quando si accetta come definitiva la stima di 79,1 kg, dato citato anche nel rapporto del Censis “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando a tavola”. Tutte le tipologie di carne (bovina, suina, pollo, ovina), sono infatti quantificate al lordo delle parti non edibili di carne all’anno consumata pro-capite in Italia, che comunque posizionerebbe il nostro Paese al terzultimo posto per consumo in Europa. E cioè tale stima si basa sui “consumi apparenti” che, a differenza dei “consumi reali”, prendono in considerazione anche tutte le parti non edibili dell’animale: tendini, ossa, grasso, cartilagini…
A sgombrare il campo da equivoci ci ha pensato l’imponente lavoro di ricerca dell’equipe dell’Università di Bologna, coordinata dal professor emerito di Zootecnia Vincenzo Russo, insieme alla Commissione di studio Istituita dall’ASPA (Associazione Scientifica per la Scienza e le Produzioni Animali).
Nello studio “Consumo reale di carne e di pesce in Italia” il team ha rivisto al ribasso le stime sul consumo di carne finora disponibili che si basavano unicamente sulla quantità di carni prodotte e importate, senza tenere in considerazione che esistono parti commestibili e parti non commestibili. Il lavoro della squadra di ricercatori italiani racconta una realtà molto diversa: il consumo reale pro-capite di carni totali corrisponde a 104 grammi al giorno (e non a quasi 300 gr come invece si pensava) pari a 728 g alla settimana e 37,9 kg all’anno, meno della metà di quei 79,1 kg di cui si sente spesso parlare.
Tale consumo prende in considerazione tutta la carne, indipendentemente dalle modalità di assunzione (cruda, cotta, trasformata in salumi, presente in preparazioni alimentari miste, inscatolata ecc.) e dai luoghi dove si sceglie di consumarla (casa, ristoranti, fast food, mense, comunità, bancarelle ecc.). Considerando solo la carne bovina, il consumo reale scende a 29 grammi al giorno pro capite, una quantità ben al di sotto delle raccomandazioni dell’OMS che fissano a 100 gr il consumo giornaliero di carne rossa. L’Italia, dunque, è il terzultimo Paese in Europa per consumo di carne.
2) "La carne fa venire il cancro, lo dice l’OMS"
L’OMS non dice che la carne provoca il cancro, ma ha analizzato il rischio di svilupparlo in relazione a un consumo puntuale di carne.
Siamo nell’ottobre 2015 quando si diffonde la notizia che l’Organizzazione Mondiale della Sanità avrebbe sancito la relazione tra consumo di carne e cancro. Ma le cose non stavano proprio così.
La IARC, l’agenzia dell’OMS che valuta e classifica le prove di cancerogenicità delle sostanze, ha classificato la carne rossa come probabilmente cancerogena (classe 2A della classificazione dello IARC) e la carne rossa lavorata (insaccati e salumi) come sicuramente cancerogena (classe 1 della classificazione dello IARC).
In altre parole, un consumo eccessivo di carne rossa e trasformata contribuisce al rischio di alcuni tipi di tumore (sui 156 conosciuti e classificati), quello del colon-retto, prima di tutto, e poi sono state osservate anche associazioni per il tumore del pancreas e della prostata.
L’OMS fa riferimento “all’eccesso” dei consumi, e non a un consumo inteso in senso generale, con un aumento del rischio relativo di circa il 18% per le carni trasformate e del 17% per le carni rosse, ben diverso dal rischio “assoluto” o reale che scende a solo l’1%.
Altra importante considerazione riguarda le quantità prese in esame dalla ricerca IARC, che sono superiori 50 grammi di carne trasformata e 500 grammi di carne rossa a settimana. Secondo la IARC, poi, i fattori di rischio delle carni non dipendono dalla carne in sé, ma sono dovuti principalmente ai metodi di conservazione, preparazione e cottura di carne e derivati (come quelle su fiamma diretta tipiche del barbecue), da cui possono scaturire amine eterocicliche aromatiche, idrocarburi policiclici aromatici e nitrosammine, composti che inducono mutazioni cancerogene.
3) "La produzione di carne non è sostenibile. Servono 15.000 litri d’acqua per produrne un chilo di carne bovina"
Le fonti su cui si basano queste stime quantificano il volume di acqua utilizzata e non l’impatto ambientale dell’acqua consumata nella produzione. Ma non tutta l’acqua è uguale: l’acqua presa dalla falda non ha lo stesso impatto ambientale di quella piovana o di quella scaricata.
In Italia per produrre 1kg di carne bovina servono 790 litri d’acqua perché l’80-90% di queste risorse idriche ritorna nel naturale ciclo dell’acqua. È vero che per produrre 1Kg di carne di manzo servono 15.000 litri d’acqua? Non proprio, soprattutto in Italia: vediamo perché. Innanzitutto, la quasi totalità dei dati di letteratura relativi all’impronta idrica dei prodotti alimentari è stata pubblicata dal Water Footprint Network (WFN), attraverso un’analisi che non quantifica l’impatto ambientale associato all’utilizzo d’acqua, ma soltanto la quantità di acqua utilizzata. Con il Water Footprint, infatti, si calcola di solito la quantità di acqua utilizzata nei processi produttivi.
È la cosiddetta “acqua virtuale” che, quando si parla di carne, include anche quella usata per coltivazione dei foraggi necessari all’alimentazione del bestiame e nella fase di macellazione. Questo metodo di valutazione dei consumi d’acqua nel settore zootecnico calcola l’impronta idrica di un prodotto sommando appunto l’acqua “blu”, quella prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, l’acqua “verde”, quella piovana evo-traspirata dal terreno durante la crescita delle colture, e l’acqua “grigia”, il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione.
In Italia, ad esempio, si impiega rispetto alla media mondiale il 25% d’acqua in meno per produrre un chilo carne bovina. Una seconda criticità sostanziale è che, prendendo in esame il valore complessivo (medio mondiale) e ignorando il contesto locale in cui avvengono la produzione e l’allevamento, non si mette in relazione il prelievo di acqua con la disponibilità di quel territorio.
Tenendo dunque conto del consumo effettivo d’acqua per 1kg di carne in una filiera efficiente possiamo affermare che in Italia per produrre 1Kg di carne bovina vengono consumati effettivamente 790 litri. E anche quando l’allevamento non si distingue per efficienza il consumo si attesta al massimo a 7000 litri, la metà di quanto comunemente viene stimato.
A livello complessivo, infatti, l’intero settore italiano delle carni (bovino, avicolo e suino) impiega per l’80-90% risorse idriche che fanno parte del naturale ciclo dell’acqua e che sono restituite all’ambiente come l’acqua piovana, mentre solo il 10-20% dell’acqua necessaria per produrre 1 kg di carne viene effettivamente consumata.
4) "Gli allevamenti inquinano più delle automobili"
Un viaggio Roma-Bruxelles genera più emissioni del consumo di carne di un italiano per un intero anno nell’ambito di un regime alimentare equilibrato. Anche in questo caso è bene fare chiarezza. Secondo stime FAO, tutto il settore agricolo e non solo gli allevamenti ha un impatto climalterante dovuto alle emissioni di gas a effetto serra (GHG emissions) pari al 10,3% (senza considerare il LUC-Land Use Change, le cui stime sono controverse), o del 14% considerando il LUC.
Stando al report Ispra del 2019 riportato dal Fatto Quotidiano, il riscaldamento è responsabile del 38% del Pm 2,5 (particolato fine) e Pm10, mentre gli allevamenti lo sono del 15,1%. Lo stoccaggio degli animali nelle stalle e la gestione dei reflui inquina più dei veicoli leggeri (al 9%) e persino più dell’industria (11,1%).
È emblematico il dato nazionale sugli allevamenti intensivi, il cui contributo al Pm primario è irrisorio, ammonta in media a poco più dell’1,5% delle emissioni. “Al contrario – spiegano gli esperti – diventano centrali se si prende in considerazione anche il particolato secondario, ovvero quello derivante dalla produzione di ammoniaca (NH3) che, liberata in atmosfera, si combina con altre componenti per generare proprio le polveri sottili”. Ed è enorme la quantità di ammoniaca prodotta da bovini, suini e ovini stipati negli allevamenti intensivi, responsabili di oltre il 75% dell’emissione di ammoniaca in Italia.
5) "La carne contiene ormoni e antibiotici, mangiarla è pericoloso"
Il trattamento di animali con ormoni è vietato in Europa da quasi 40 anni. Negli allevamenti italiani ed europei, infatti, la somministrazione di sostanze ad attività ormonale ad animali le cui carni o prodotti siano destinati al consumo umano sono strettamente limitati ad alcuni trattamenti terapeutici e zootecnici, già dal lontano 1981.
Qualsiasi altra somministrazione, come quella volta a stimolare la crescita, è invece assolutamente vietata – cosa che in paesi come Usa e Canada è invece tuttora consentita, tanto da portare l’Ue a vietare (dal 1988) l’importazione da Oltreoceano di carni bovine trattate con determinati ormoni della crescita.
Diverso è il caso degli antibiotici. Negli allevamenti italiani (e non solo) si fa un massiccio ricorso agli antibiotici, tanto che il nostro Paese è il terzo in Europa per abuso di questi farmaci. In particolare, spiega “Compassion in World Farming" (CIWF) Italia Onlus, il 73% degli antibiotici consumati nel mondo sono utilizzati negli allevamenti. In Italia circa il 70% degli antibiotici venduti sono destinati ai cosiddetti “animali da reddito”. Nell’ottobre del 2018 il Parlamento europeo ha votato una normativa che vieta l’abuso degli antibiotici negli allevamenti a partire dal 2022.
È importante sottolineare che questa nuova legge non esclude di curare gli animali, e neanche esclude di somministrare gli antibiotici ai singoli animali che sono a rischio di sviluppare patologie che poi possono trasmettersi al gruppo. Il punto chiave consiste proprio nel curare i singoli animali evitando i trattamenti profilattici di massa o di gruppo attraverso il mangime o l’acqua.