Silvio Berlusconi è stato ospite della trasmissione Domenica Live su Canale 5 (dal minuto 6’35”) e ha parlato della flat tax. Il leader di Forza Italia ha spiegato, per distinguere la proposta di Forza Italia rispetto a quella della Lega di Matteo Salvini, che “nel nostro caso sarà un’aliquota pari o inferiore all’aliquota più bassa che è oggi in Italia il 23 per cento”. Ricordiamo che invece la Lega vorrebbe introdurre una flat tax almeno al 19 per cento.
Vediamo che cosa è successo nei paesi che hanno introdotto una flat tax e che cosa succederebbe se fosse applicata in Italia.
Quanti contribuenti sarebbero interessati?
Secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, i contribuenti Irpef dell’anno fiscale 2015 - il più recente per cui sono disponibili - sono 40,8 milioni. Non tutti pagano l’Irpef, la principale tassa sul reddito: quelli che dichiarano un’imposta netta Irpef sono 30,9 milioni, il 76% del totale contribuenti. Circa 10 milioni di soggetti hanno invece un’imposta pari a zero, e sono quindi contribuenti con livelli reddituali talmente bassi da essere esonerati o che hanno abbastanza detrazioni da azzerare l’imposta lorda. Essi non sarebbero naturalmente toccati dall’introduzione della flat tax.
Che cosa cambierebbe per i circa 31 milioni rimanenti? Se venisse introdotta un’aliquota del 23 per cento, la più bassa oggi in vigore, la flat tax avrebbe un impatto per coloro che hanno un reddito superiore a 15 mila euro, dato che già oggi chi ha un reddito pari o inferiore a quella cifra paga appunto il 23 per cento di Irpef.
Nel 2015, i contribuenti con un reddito superiore a 15 mila euro erano 22,2 milioni, il 54 per cento del totale. Per loro, le aliquote sono del 27 per cento (redditi tra i 15.000 e i 28.000 euro), del 38 per cento (redditi tra i 28.000 e i 55.000 euro), del 41 per cento (redditi tra i 55.000 e i 75.000 euro) e del 43 per cento (redditi oltre i 75 mila euro).
I contribuenti con un reddito Irpef superiore a 15 mila euro pagano oggi la stragrande maggioranza dell’Irpef (il 96 per cento), ovvero oltre 148 miliardi su un totale di 155,2 miliardi di imposta.
Quindi in prima approssimazione - la legislazione fiscale italiana, come è noto, è molto complicata - possiamo dire che una flat tax al 23 per cento avrebbe un impatto sulla metà circa dei contribuenti (quella più ricca).
Che cosa è successo dove è stata adottata?
Per dare forza alla sua proposta, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi dice spesso che moltissimi Stati applicano già la flat tax, da Hong Kong alla Russia.
È vero: si può dire che l’aliquota unica esista oggi in una quarantina di territori e Paesi del mondo, il più importante dei quali è appunto la Russia. Ma la flat tax funziona? La risposta è complessa.
In breve: i favorevoli ricordano che la flat tax semplifica molto gli adempimenti fiscali, e potrebbe spingere in alto il numero di coloro che presentano la dichiarazione dei redditi; inoltre, una legislazione fiscale molto semplice potrebbe aiutare gli investimenti stranieri.
Gli scettici, invece, ricordano che non ci sono molte prove che l’introduzione della flat tax abbia davvero effetti benefici sull’economia. Vediamo qualche esempio.
A Hong Kong, la flat tax venne introdotta poco dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1948. L’ex territorio britannico si può considerare di certo una storia di successo economico: alcuni lo attribuiscono proprio all’aliquota unica, con l’importante precisazione che nel Paese la flat tax funziona anche perché le spese dell’amministrazione centrale sono a un livello estremamente basso (e quindi è basso anche il bisogno di risorse da trovare tramite le tasse).
Dopo diversi decenni in cui Hong Kong è stata quasi un’eccezione mondiale, il revival più robusto dell’aliquota unica è cominciato negli anni Novanta, quando le tre repubbliche baltiche - Estonia, Lettonia e Lituania - passarono a quel sistema tra il 1994 e il 1995, con aliquota unica tra il 25 e il 27 per cento.
Negli anni successivi, i paesi baltici videro alcuni dei tassi di crescita più alti d’Europa. Merito della flat tax? Difficile dirlo. Si trattava di paesi in fase di transizione - in uscita dal modello a economia pianificata - e in cui la flat tax sembrava avere soprattutto il pregio della semplicità, in una struttura amministrativa per certi versi da ricostruire.
Una tesi di laurea sul tema, discussa nel 2009 alla University of Pennsylvania, non ha trovato prove evidenti, nei dati o negli studi, del fatto che il passaggio alla flat tax sia stato l’elemento decisivo nel portare alla crescita economica. Allo stesso tempo, un articolo dell’Economist del 2007 riassumeva la situazione scrivendo che “le prove a supporto [del beneficio della flat tax per la crescita] sono scarse”.
Nel 2001, anche la Russia ha introdotto un’aliquota unica, attualmente la sola grande economia ad averlo fatto. Dopo l’introduzione in Russia, altri paesi dell’Europa orientale hanno seguito quell’esempio, tra cui Serbia, Ucraina, Slovacchia, Georgia e Romania.
Pochi anni dopo l’introduzione in Russia, un ampio studio del 2006 del Fmi partiva dal presupposto che “i modelli di flat tax adottati negli anni recenti sono sensibilmente diversi tra loro” e per questo è difficile arrivare a una conclusione unica.
Poche certezze sul fatto che funzioni, ma alcune le abbiamo
Si possono comunque riportare le linee generali conclusive dello studio del Fondo monetario. Innanzitutto, fatta eccezione per il caso della Russia, negli altri Paesi dove è stata adottata di recente la flat tax ha portato a una riduzione delle entrate per lo Stato dai redditi sulle persone fisiche.
Gli autori dello studio precisano anzi che “queste riforme non hanno ottenuto effetti sufficienti per ripagarsi”. E, aggiungono, anche in Russia “è difficile associare i maggiori introiti per la riforma della flat tax, è piuttosto probabile che questi siano stati il riflesso di una più generalizzata ripresa economica”. Al momento dell’introduzione della flat tax nel paese, inoltre, il sistema di raccolta fiscale era quasi al collasso.
Del resto, nella stessa Russia, la riforma ha garantito una crescita del 26 per cento nelle entrate fiscali da persone fisiche, nell’anno successivo all’introduzione: ma questo è probabilmente dovuto anche al contemporaneo aumento dei salari.
In conclusione, gli autori dell’FMI segnalano che “la flat tax è stata quasi ovunque adottata da nuovi governi ansiosi di dare un segnale di cambio di regime, con politiche più orientate al mercato”. Questo spiegherebbe anche perché sia molto diffusa nei Paesi dell’Est Europa. In ultimo, lo studio riporta che “rimane non chiaro se la flat tax sia sostenibile”.
Che conti ha fatto Berlusconi?
Ma quale sarebbe l’effetto per i conti pubblici, in Italia? I numeri non sembrano confermare l’annuncio di Berlusconi che il provvedimento si ripaghi da sé. Anzi, il costo sembrerebbe piuttosto salato.
Il leader di Forza Italia ha detto che “abbiamo calcolato che il primo anno ci saranno entrate minori dell’erario per 30 o 40 miliardi, ma andiamo a recuperare tra gli 87 e i 130 miliardi, quindi calcoliamo che entreranno almeno 40 miliardi di tasse in più derivanti dalla non evasione e dalla non elusione”. Vero insomma che abbassare le tasse con un’unica aliquota comporterebbe un minore gettito rispetto ai contribuenti attuali - ma questo sarebbe ampiamente compensato dal recupero dell’evasione.
Come? Nelle parole di Berlusconi: “non solo è più conveniente per i cittadini e più facile da dichiarare, ma è qualcosa che rende difficilissimo l’elusione e l’evasione”, in ragione della sua semplicità: “non c’è neppure la convenienza per qualcuno a eludere o evadere e incorrere in pesanti sanzioni penali”.
Insomma, abbassare le tasse dovrebbe convincere chi oggi evade che sia più conveniente iniziare a pagare quanto dovuto al fisco. Da qui gli 87-130 miliardi recuperati, sempre secondo le stime di Forza Italia, grazie alla flat tax.
Vediamo che cosa si può dire di questi numeri.
Quanti soldi in meno…
Forza Italia parla già da alcuni anni di questa proposta, e dunque esistono diverse stime sul suo impatto. Nel 2014, LaVoce aveva fatto dei calcoli sulla base dei requisiti allora fissati dal partito di Berlusconi: una flat tax al 20 per cento con no tax area fino a 13 mila euro (questi numeri sono stati peraltro ribaditi non molto tempo fa da Renato Brunetta a Cartabianca su Rai Tre - Cartabianca, min. 4’10”). Secondo LaVoce, l’impatto di una simile riforma sull’erario sarebbe stato intorno ai 95 miliardi in mancate entrate.
Berlusconi parla invece di 30 o 40 miliardi di minori entrate: una cifra parecchio più bassa.
… e quanti in più
Secondo Berlusconi, però, le minori entrate sarebbero compensate da un’importante emersione dell’evasione fiscale.
Nel progetto di flat tax di Forza Italia si prevede un’emersione pari a “metà dell’evasione totale”.
Sempre LaVoce ricorda che “al momento la stima prevalente indica una cifra variabile tra i 200 e i 230 miliardi di capitali evasi che sfuggono al fisco”. La cifra della Voce si riferisce probabilmente ai capitali detenuti illecitamente all’estero, a proposito di cui negli ultimi anni ci sono state effettuate diverse iniziative per il rientro.
Le stime attuali dei soldi evasi ogni anno, che però escludono i capitali rimasti ancora all’estero, sono di circa la metà: il Ministero dell’Economia e delle finanze li valuta in circa 85 miliardi nell’anno 2015, mentre l’Istat in circa 93 miliardi. Poco meno della metà.
Ma consideriamo buona la cifra più alta citata da LaVoce, che garantirebbe maggiori entrate al fisco secondo i calcoli di Forza Italia. Stando così le cose, far emergere metà dell’evasione fiscale equivarrebbe a far dichiarare tra i 100 e i 115 miliardi di euro in più. Una cifra che sta all’interno di quanto indicato da Berlusconi, che parla di un intervallo tra gli 87 e i 130 miliardi recuperati.
Il problema principale è che quei soldi non verrebbero tutti presi dal fisco: non sarebbero cioè tassati al 100 per cento. Sempre nell’analisi di LaVoce si precisa che “se, ottimisticamente, tutti i 230 miliardi emergessero alla dogana di Lugano e lo Stato italiano potesse dunque tassarli al 20 o al 15 per cento con una maggiorazione, potrebbe arrivare a incassare un massimo di 50 miliardi”.
Forza Italia reputa possibile recuperare la metà dell’evaso: questo significherebbe far rientrare 25 miliardi in più. E questo con le previsioni più ottimistiche. Perché se invece ci basassimo sugli 85 miliardi del Mef, tassarne la metà, come auspica Berlusconi, garantirebbe 42 miliardi di euro. Peraltro senza considerare che sono stati calcolati sulla base della tassazione odierna, che in media è più del doppio del 23 per cento della flat tax forzista. Così si scenderebbe a 21 miliardi all’anno di recupero dall’evasione.
Insomma, comunque la si calcoli gli 87-130 miliardi ipotizzati da Berlusconi paiono un’ipotesi ben superiore alle previsioni più ottimistiche.
Ma insomma, quanto ci costerebbe la flat tax?
A questo punto, riassumiamo le stime di quanto costerebbe introdurre una flat tax al 23 per cento.
Secondo Berlusconi, le minori entrate per 30-40 miliardi sarebbero compensate da maggiori entrate per 87-130 miliardi. Anche considerando i numeri peggiori citati dal leader di Forza Italia, il saldo sarebbe comunque in positivo per almeno 47 miliardi all’anno.
Opposti i calcoli de LaVoce, che sulla base di valutazioni prudenziali parlava di un minore gettito per lo Stato pari a circa 95 miliardi all’anno. Non è l’unica cifra di questo tipo: il Sole 24 ore stima un costo di 40 miliardi. Anche tenendo valida l’ipotesi meno dispendiosa, cioè quella di 40 miliardi, e l’emersione della metà dei capitali come ipotizzato da Forza Italia, resterebbero circa 20 miliardi di coperture da trovare. In un altro articolo invece lo stesso quotidiano ipotizza, anche sulla base di calcoli dell’Istituto Bruno Leoni, un costo di 70 miliardi.
Comunque la si guardi, non solo le casse dell’erario non guadagneranno almeno 47 miliardi all’anno come sostiene Berlusconi, ma si troveranno al contrario a dover fronteggiare minori introiti per una cifra variabile tra i 20 e i 70 miliardi all’anno.
Un problema, la Costituzione
C’è un ultimo aspetto da considerare, al di là dei numeri, e del quale avevamo già parlato. Si chiama Costituzione. Nella nostra Carta si prevede infatti il criterio di progressività fiscale.
L’articolo 53 della Costituzione spiega infatti che “tutti [i cittadini] sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Ovvero che, all’aumentare delle capacità contributive, deve aumentare anche il contributo alle casse dello Stato.
Un’unica tassa al 23 per cento per tutti i cittadini e le imprese, pur prevedendo una no tax area fino a 13 mila euro, sarebbe invece in contrasto con questo principio costituzionale, perché consentirebbe alla fetta più ricca di popolazione di pagare la stessa percentuale di tasse di chi guadagna molto meno.
Naturalmente non siamo stati i soli a notare un rischio di costituzionalità della flat tax: ne hanno parlato anche Sole 24 Ore e Corriere della Sera. C’è però anche chi sostiene che la flat tax sarebbe perfettamente costituzionale, perché nella Carta si parla di “criteri di progressività” e non di aliquote progressive. Su questo punto problematico, insomma, c’è dibattito.
Conclusioni
La flat tax esiste in diversi paesi del mondo, e in molti di essi c’è stata una forte crescita economica dopo la sua introduzione. Con poche eccezioni, si trattava però di paesi usciti da poco dall’economia pianificata di stampo sovietico, e in cui i sistemi di riscossione erano in grave difficoltà.
La semplificazione fiscale deve averli aiutati a raccogliere in modo più efficiente le tasse dei loro cittadini, ma gli studi non hanno trovato prove univoche del fatto che sia stata l’aliquota unica ad aver davvero aiutato la crescita economica.
Quanto ai numeri per l’Italia, Berlusconi riporta cifre che si discostano molto da tutte le altre stime. Secondo queste ultime, introdurre la flat tax al 23 per cento avrebbe un’importante ripercussione sui conti dello Stato. Il tutto senza dimenticare il problema di come introdurre una norma che rischierebbe di violare il criterio di progressività fiscale previsto dalla Costituzione.