In una lettera inviata a Repubblica, pubblicata lo scorso 7 marzo, il leader del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio tra le altre cose ha affermato: “Dieci milioni di poveri non possono essere ignorati. Trenta miliardi di sprechi non possono non essere eliminati. Una tassazione folle per le imprese non può non essere ritoccata. La sicurezza nelle città giorno e notte non può non essere garantita. La disoccupazione, soprattutto giovanile, non può continuare a dilagare”.
Verifichiamo i dati e le affermazioni di Di Maio.
Il numero di poveri in Italia
Nell’ultimo report dell’Istat su “La povertà in Italia”, pubblicato a luglio 2017 e relativo all’anno precedente, si legge che “Nel 2016 si stima siano 1 milione e 619mila le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta, nelle quali vivono 4 milioni e 742mila individui”.
Con povertà assoluta si intende la spesa minima necessaria per acquisire i beni e servizi inseriti nel paniere di povertà assoluta (generi alimentari, abitazioni e beni durevoli di prima necessità). La soglia di povertà assoluta varia in base alla dimensione della famiglia, alla sua composizione per età, alla ripartizione geografica e alla dimensione del comune di residenza (qui è possibile fare i calcoli).
Nello stesso report si certifica che la povertà relativa nel 2016 riguardava 2 milioni 734mila famiglie residenti, cioè 8 milioni 465mila individui.
La soglia di povertà relativa, spiega ancora l’Istat, per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media per persona nel Paese (ovvero alla spesa pro-capite, e si ottiene dividendo la spesa totale per consumi delle famiglie per il numero totale dei componenti). Nel 2016 questa spesa è pari a 1.061,35 euro mensili.
Dunque i due insiemi non vanno sommati, ma quello dei poveri relativi comprende anche l’insieme dei poveri assoluti. Il numero di poveri in Italia è di circa 8 milioni e mezzo, un milione e mezzo meno dei 10 milioni di cui parla Di Maio.
Quanti miliardi di sprechi
I 30 miliardi di sprechi di cui parla Di Maio sono con ogni probabilità quelli indicati dal M5S come “coperture” per le misure proposte che deriverebbero dalla spending review.
Nel blog del Movimento, appunto nel capitolo “coperture”, si legge: “circa 30 miliardi annui, a regime, di spending review in senso stretto che sono stati già individuati da una sequela di commissari alla spesa, con in testa Carlo Cottarelli”.
Andiamo dunque a vedere la relazione conclusiva del lavoro di revisione della spesa svolto da Cotterelli. Lo studio dell’economista si riferisce agli anni 2014-2016, ma può essere utile per farsi un’idea se l’ordine di grandezza di “sprechi” di cui parla Di Maio è corretto o meno.
Nel capitolo iniziale “Risparmi significativi sono possibili” si indicano a livello generale due fonti di risparmio: “grandi (e difficili) riforme strutturali, non azione di ordinaria manutenzione, da iniziare subito” e “Cambiamento nel modo di gestire la spesa ma senza stravolgere il «welfare state» e senza tagli all’educazione pubblica”.
Più nel dettaglio, si va da misure di efficientamento diretto su beni e servizi, che a regime produrrebbero oltre 7 miliardi di risparmi, a quelle di riorganizzazione (ad esempio, nei corpi di polizia, produrrebbero 1,7 miliardi di risparmi); dal taglio dei costi della politica (900 milioni a regime) alla riduzione dei trasferimenti inefficienti (es. 3 miliardi di trasferimenti da Stato e regioni alle imprese).
Nel complesso, secondo Cottarelli, i risparmi lordi massimi possibili sarebbero stati 7 miliardi su base annua nel 2014, 18 miliardi nel 2015, 34 miliardi nel 2016.
Siamo dunque vicini, con le misure proposte a pieno regime.
La tassazione “folle” delle imprese
La Banca Mondiale e la società di revisione Pwc pubblicano ogni anno un rapporto (“Paying Taxes”) che tratta, tra le altre cose, della tassazione delle imprese. Vediamo in particolare l’indice TTCR (“Total Tax & Contribution Rate”), che conteggia il carico fiscale complessivo per le imprese.
Nel rapporto Paying Taxes 2018, si certifica che nel 2017 il carico fiscale complessivo per le imprese in Italia è stato del 48%, il che ci posizionava decimi in Europa, dietro – tra gli altri - Francia (62,2%) e Germania (48,9%), e poco davanti alla Spagna (46,9%).
La situazione non sembra “folle”, come afferma Di Maio, anche se nell’aggettivo è naturalmente incluso un (legittimo) giudizio di valore.
C’è da dire che il miglioramento è molto recente. Ancora l’anno scorso, come si legge nel rapporto del 2018 e si può verificare nel rapporto del 2017, il TTCR dell’Italia era ben 14 punti più alto. Col 62% eravamo secondi in Europa, subito dietro la Francia (sempre 62,2%) e molto davanti a tutti gli altri grandi Paesi europei.
Le misure che hanno consentito questo recente miglioramento, oltretutto, sono temporanee. Infatti, come si legge nel rapporto di Banca Mondiale e Pwc, il miglioramento dipende in larga parte dalle decontribuzioni varate nel 2015 (e valide per 36 mesi) che tuttavia non sono state rinnovate integralmente. Ad esempio, la legge di bilancio per il 2018 (art. 1 co. 100) prevede una decontribuzione solo al 50% e solo per gli under-35.
La disoccupazione giovanile
La questione sicurezza, per come formulata da Di Maio, non si presta a una verifica oggettiva (in passato abbiamo riscontrato un calo del numero di reati negli ultimi anni, ma Di Maio sembra fare riferimento a un problema più ampio).
Per la disoccupazione giovanile, vediamo nel database Istat* l’andamento della sua percentuale nel corso degli ultimi anni. Presentiamo alcuni numeri, senza esprimerci nel merito sull’uso del termine “dilagare”.
Il tasso di disoccupazione per i giovani, prima della crisi (anni 2004-2009), oscillava tra il 20% e il 25%. Cresciuta, ma in misura contenuta, nei due anni successivi – 27,9% nel 2010 e 29,2% nel 2011 – è “dilagata”, per usare il termine utilizzato da Di Maio, dal 2012 incluso in poi.
Quell’anno il tasso è infatti salito al 35,3%, al 40% nel 2013 e – record – al 42,7% nel 2014.
Da allora il dato è andato migliorando, calando al 40,3% nel 2015, al 37,8% nel 2016 e nel terzo trimestre del 2017 al 32,3%.
Insomma: è vero che il dato attuale è ancora di circa dieci punti più alto della situazione pre-crisi, ma è anche dieci punti più basso del livello record del 2014.
Infine, questo dato non significa che un giovane su tre è disoccupato, ma che un giovane su tre “tra quelli che cercano lavoro” – una minoranza, considerata la fascia di età 15-24 in cui si concentra la maggior parte degli studenti – non lo trova. In assoluto dunque, certifica l’Istat, sono 8,4 giovani su 100 i “disoccupati” in Italia: quanti cercano lavoro ma non lo trovano.
*Percorso: Lavoro e retribuzioni; Offerta di lavoro; Disoccupazione; Tasso di disoccupazione; Tasso di disoccupazione – livello ripartizionale
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