Stefano Ceccanti, costituzionalista e candidato col Pd alla Camera in Toscana, ha scritto lo scorso 28 febbraio sul suo blog personale: “Riepilogo per l’onorevole Di Maio: la proclamazione è conseguenza automatica dei risultati elettorali.
Non è un atto discrezionale degli uffici elettorali né è rinunciabile da parte del candidato, meno che mai inviando una mail. La proclamazione non è un atto nella disponibilità del candidato, il quale può decidere:
- Se candidarsi o no
- Eventualmente può ritirare la candidatura già presentata, ma solo se lo fa prima che l’ufficio elettorale abbia chiuso la fase di ammissione delle liste
- Dimettersi da deputato una volta proclamato. Ma non può rinunciare alla proclamazione”.
Ceccanti fa riferimento all’affermazione di Luigi Di Maio, del 16 febbraio scorso, secondo cui “Gli elettori possono votare tranquillamente il M5s" perché non solo ai candidati che si sono rivelati massoni ma anche a "coloro che non hanno rispettato il patto delle donazioni e che sono candidati, sarà chiesto di rinunciare alla proclamazione andando alla Corte d' Appello".
La proclamazione
Discrezionalità
Ha ragione Ceccanti nell’affermare che la proclamazione non sia un atto discrezionale degli uffici elettorali.
La procedura è disciplinata dagli articoli 83-84 del D.P.R. 361/1957 (testo unico delle leggi elettorali per la Camera), al termine della quale “l'Ufficio centrale circoscrizionale proclama eletti in ciascun collegio plurinominale, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista del collegio, secondo l'ordine di presentazione.”.
Non solo la proclamazione non è in qualche modo evitabile dal candidato che viene eletto: non proclamare eletto qualcuno che ha ottenuto i voti è un reato. Infatti, in base all’articolo 104 co. 2 del già citato D.P.R. 361/1957, “chiunque, appartenendo all'ufficio elettorale, con atti od omissioni contrari alla legge, rende impossibile il compimento delle operazioni elettorali […] o si astiene dalla proclamazione dell'esito delle votazioni è punito con la reclusione da tre a sette anni e con la multa da lire 2.000.000 a lire 4.000.000”.
Rinunciabilità
Corretta poi anche l’affermazione secondo cui la proclamazione non è rinunciabile da parte del candidato. Dato che non è possibile, per i membri dell’ufficio elettorale, non proclamare un candidato eletto, la proclamazione è automatica e avviene in ogni caso.
C’è solo un’eccezione: nel caso in cui sopravvenga una condizione di incandidabilità - quelle stabilite dall’art. 2 co.4 D.lgs. 235/2012, uno dei decreti attuativi della legge Severino - dopo la scadenza del termine per la chiusura delle liste elettorali.
In quel caso, il candidato “incandidabile” resta nelle liste e, se viene eletto, l’ufficio elettorale competente procede alla dichiarazione di “mancata proclamazione” nei suoi confronti. Addirittura, se la condizione di incandidabilità emerge dopo la proclamazione, la decadenza dall’incarico non è neppure automatica: in base all’art. 3 del D.legs 235/2012, è la camera di appartenenza a dover votare l’eventuale incompatibilità (ex art. 66 cost.).
Rinunciabilità della candidatura
Quello che abbiamo riassunto fin qui riguarda il momento della proclamazione. Il discorso è diverso per la rinuncia alla candidatura: è possibile, ma solo entro determinati termini e con certe forme.
L’articolo 22 comma 6-ter del D.P.R. 361/1957 dispone infatti che L'Ufficio centrale circoscrizionale “a seguito di eventuale rinuncia alla candidatura […] procede all'eventuale modifica della composizione delle liste dei candidati nei collegi plurinominali nel modo seguente”. Ma per questa operazione è stabilito appunto un termine (comma 1): l’Ufficio può procedere solo “entro il giorno successivo alla scadenza del termine stabilito per la presentazione delle liste dei candidati”.
Scaduto il termine per la presentazione delle liste – in questa tornata elettorale era il 29 gennaio 2018 – e passato il giorno successivo, non è più possibile rinunciare alla candidatura.
Lo conferma anche la sentenza 1384 del primo ottobre 1998 del Consiglio di Stato, secondo cui “una volta accettata la candidatura, anche la rinuncia (atto contrario all'accettazione), per quell'esigenza di certezza che contraddistingue il procedimento elettorale, deve rivestire le stesse forme (dichiarazione autenticata), ed essere presentata con le modalità ed entro i termini stabiliti per la presentazione delle candidature, altrimenti non esplica alcuna efficacia sulla composizione delle liste”.
La rinuncia al seggio
Come avevamo già scritto, eventuali accordi tra privati che impongano a un eletto proclamato la rinuncia al proprio seggio rischiano di essere illegittimi. Se impugnati davanti a un giudice, potrebbero infatti essere ritenuti in contrasto con l’articolo 67 della Costituzione, che garantisce a tutti i parlamentari il diritto/dovere di rappresentare la nazione e di esercitare le sue funzioni senza vincolo di mandato, e con l’articolo 23, secondo cui “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
Le opzioni per un candidato che voglia rinunciare
Corrette infine le tre opzioni che elenca Ceccanti. Ovviamente un cittadino può scegliere liberamente se candidarsi o meno (art. 51 cost.). Come abbiamo visto può rinunciare alla candidatura – anche dopo l’accettazione – purché rispetti due requisiti fondamentali: la rinuncia deve arrivare entro il giorno successivo al termine stabilito per la chiusura delle liste elettorali, e deve avvenire nelle stesse forme utilizzate per l’accettazione.
Quanto alle dimissioni, è possibile presentarle ma – come stabilisce l’articolo 89 del D.P.R. 361/1957 – “È riservata alla Camera dei deputati la facoltà di ricevere e accertare le dimissioni dei propri membri”.
La votazione avviene a scrutinio segreto, sia alla Camera che al Senato, ed è possibile che, nonostante la richiesta del deputato, le dimissioni vengano respinte. Esemplare il caso di Giuseppe Vacciano: eletto col M5S nel 2013, nel 2015 annunciò l’intenzione di dimettersi perché non condivideva più la linea del Movimento, ma da allora fino ad oggi – in ben cinque occasioni – il Senato ha sempre respinto la richiesta di accettare le sue dimissioni.
Conclusioni
L’affermazione di Stefano Ceccanti è corretta in tutte le sue parti. La proclamazione è automatica, dunque il candidato eletto non vi può rinunciare. Non è discrezionale, anzi, l’ufficiale commette un reato in caso di astensione dalla proclamazione. Non è poi possibile rinunciare alla candidatura una volta scaduto il termine (il giorno successivo alla chiusura delle liste elettorali).
Un cittadino dunque può non candidarsi, rinunciare alla candidatura entro i termini e con certe forme, oppure dimettersi dopo l’elezione (ma le dimissioni devono essere accettate dalla camera di appartenenza con voto segreto), ma non può rinunciare alla proclamazione.
Inoltre, eventuali accordi che impongano la rinuncia al seggio sono a rischio incostituzionalità.
Dunque i candidati del M5S “indesiderati”, se il loro partito raccoglierà nelle rispettive circoscrizioni voti a sufficienza, saranno comunque eletti. Una volta eletti potranno – ma è impossibile obbligarli – dimettersi, e la camera di appartenenza dovrà eventualmente accettare tali dimissioni.
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