La Cina sta affrontando la più grave emergenza sanitaria degli ultimi anni. Il coronavirus 2019-nCoV, secondo l’ultimo bollettino dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) del 9 febbraio, ha già causato 812 morti nel Paese (uno solo al di fuori dei suoi confini) e quasi 40 mila contagi. Questa situazione, che ha spinto Pechino a isolare intere aree del Paese, si teme che possa avere delle serie ripercussioni sull’economia globale.
Andiamo allora a vedere quali sono le relazioni commerciali tra Italia e Cina in base ai dati più recenti, come sono cambiate nel tempo e quanto – e perché – potrebbero risentire dell’effetto-coronavirus.
La prima potenza esportatrice al mondo
La Cina, come abbiamo scritto di recente, è il primo Stato al mondo per esportazioni: nel 2018 sono state pari a 2.631 miliardi di dollari, quasi mille miliardi di dollari più degli Stati Uniti. Per quanto riguarda le importazioni è invece seconda, dietro agli Stati Uniti, con 1.876 miliardi.
La bilancia commerciale cinese – cioè la differenza tra import ed export – è risultata quindi positiva nel 2018 per oltre 755 miliardi di dollari.
Quanto è importante la Cina per l’Italia?
Secondo Eurostat, nel 2018 – ultimo anno per cui è disponibile il dato annuale – l’Italia ha esportato in Cina beni per poco più di 13 miliardi di euro. Allo stesso tempo ha importato beni dal Paese asiatico per circa 31 miliardi di euro.
Come risulta dalle tabelle del Ministero per lo Sviluppo economico (Mise), la Cina nel 2018 era nona nella classifica dei Paesi destinatari del nostro export (ai primi due posti c’erano Germania e Francia), sul cui totale pesa per il 2,8 per cento, ed era terza in quella dei Paesi di provenienza del nostro import (ai primi due posti, di nuovo, Germania e Francia), con un peso pari al 7,3 per cento.
Nel 2019 (gennaio-settembre) le cose sono rimaste sostanzialmente stabili, con una leggera flessione dell’export italiano, passato nello stesso periodo di tempo da 9,65 miliardi a 9,43 miliardi di euro, e un discreto aumento dell’import cinese in Italia, cresciuto da 23 miliardi a 24,25 miliardi di euro.
Uno sguardo al passato
Questa grande rilevanza della Cina per l’Italia, in particolare come Paese produttore di beni che importiamo nel nostro mercato, è una novità degli ultimi decenni.
Nel 1996, l’anno dopo che Pechino ottenne lo status di Paese osservatore all’interno del Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio), l’Italia importava poco più di tre miliardi di euro di beni. In un ventennio questo numero è decuplicato.
Ancora nel 2000, l’anno prima che la Cina entrasse ufficialmente a far parte del Wto, l’export cinese in Italia arrivava a 7 miliardi di euro: sarebbe raddoppiato nei cinque anni successivi (14 miliardi nel 2005) e ulteriormente raddoppiato nei dieci ancora successivi (28 miliardi nel 2015).
Più modesta, ma comunque significativa, la crescita dell’export italiano verso il gigante asiatico: era pari a 2,2 miliardi nel 1996, a 2,4 miliardi nel 2000, a 4,6 miliardi nel 2005 e ha superato il tetto dei 10 miliardi di euro nel 2014.
Perché si teme l’effetto del coronavirus sull’import/export
Il 5 febbraio la presidente della Banca centrale europa Christine Lagarde, nel corso di una conferenza a Parigi, ha dichiarato che «mentre il rischio di una guerra commerciale tra Usa e Cina sembra essere diminuito, il coronavirus aggiunge nuovi elementi di incertezza». Secondo Lagarde, in particolare, il coronavirus metterebbe a rischio la crescita globale.
Ma perché?
La risposta è complessa: sicuramente c’è un rischio diretto per le esportazioni e le importazioni. Se i consumatori cinesi restano chiusi in casa invece di viaggiare e comprare prodotti stranieri, questo diminuisce l’export del resto del mondo. Se i lavoratori cinesi non possono andare in fabbrica, e non vengono prodotti i beni che il resto del mondo importa dalla Cina, diminuisce l’import globale dal Paese asiatico. Ma la questione è anche più complessa, e grave, di così.
Secondo Neil Shearing, capo economista della società di consulenza Capital Economics, citato il 7 febbraio dal Financial Times, il rischio maggiore dipende dal fatto che «la Cina si trova oggi al centro di numerose global supply chain [catene di produzione globali n.d.r.]». In parole semplici: un auto tedesca può essere progettata in Germania, i suoi componenti possono essere prodotti in Cina, Polonia e Argentina, usando materie prime che provengono dal Congo, dal Brasile e dall’Italia, e il prodotto finale può essere poi assemblato in Romania per essere poi venduto in tutta Europa.
Se un componente indispensabile per una produzione tedesca, coreana, italiana, americana, brasiliana e via dicendo viene prodotto in Cina, e in particolare in stabilimenti che si trovano in aree coinvolte dalla quarantena per il coronavirus, l’intera catena rischia di incepparsi. Alcune notizie degli ultimi giorni, sembrano confermare il rischio che si stia andando verso questa direzione.
Il coronavirus, riferisce sempre il Financial Times, starebbe infatti già mettendo in allerta diverse società che sfruttano queste catene di produzione globali. Ad esempio il gruppo Fiat-Chrysler ha annunciato agli inizi di febbraio che se la fornitura di componenti dalla Cina continuerà a subire gli effetti del virus, presto dovrà chiudere uno dei suoi stabilimenti in Europa. Wuhan, la città focolaio del virus, è infatti uno dei principali centri di produzione di componenti automobilistici della Cina. Oltre a Fiat, hanno subito conseguenze – secondo quanto riporta la Bbc – anche Nissan, Toyota, Honda e Ford.
Se questi sono i rischi teorici, è ancora presto per azzardare ipotesi su quali saranno le conseguenze in concreto. I paragoni con la Sars, mette in guarda il Financial Times, sono poco efficaci, considerato quanto è cambiata l’economia – e il ruolo di Pechino in questa – negli ultimi 15 anni. Se all’epoca la crescita cinese aveva rallentato, a causa del virus, di due punti nel secondo trimestre per poi “rimbalzare” nel terzo, adesso le cose potrebbero andare molto peggio.
Che cosa teme l’Italia
Secondo un articolo del 5 febbraio de Il Sole 24 ore l’Italia, che ha una crescita del Pil più bassa di chiunque altro nella Ue, rischia di pagare un conto salato, in particolare per quanto riguarda i beni di lusso e il turismo.
Circa quest’ultimo, gli arrivi di turisti cinesi nel 2018 sono stati superiori ai 3,2 milioni: il quinto dato più alto, dietro a Germania, Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Il 2020, oltretutto, è l’anno della cultura e del turismo tra Italia e Cina e dunque le aspettative erano, prima dell’epidemia, molto alte.
Circa i beni di lusso, ancora il Sole 24 ore riportava il 25 gennaio che secondo Global Blue (società leader nel Tax Refund) nel 2019 è stata proprio la nazionalità cinese a generare la quota maggiore di acquisti tax free nei negozi del lusso nazionali, con un 28 per cento, seguiti da russi (12 per cento), statunitensi (11 per cento), viaggiatori dai Paesi del Golfo (5 per cento), giapponesi (5 per cento) e coreani (5 per cento).
Insomma in questi due settori le ripercussioni economiche del coronavirus potrebbero essere molto negative e, come abbiamo visto, anche gli altri settori – dall’automobile alla manifattura in generale – sono a rischio.
Conclusione
La Cina è il primo Paese al mondo per valore delle esportazioni e il secondo per quelle delle importazioni. Il suo mercato è di fondamentale importanza per l’Italia, che ha nella Cina il terzo Paese da cui importa beni e il nono verso cui li esporta.
Al momento è presto per azzardare ipotesi su quale sarà, di preciso, l’impatto economico dell’epidemia di coronavirus a livello globale e per l’Italia. Gli esperti temono, oltre ai danni diretti all’import/export, le conseguenze negative sulle global supply chain, che spesso hanno in Cina dei passaggi ineliminabili: se si ferma un singolo ingranaggio, ci sono ripercussioni sull’intera catena.
L’Italia poi, oltre a subire i rischi legati alle interruzioni delle global supply chain, rischia anche di subire effetti negativi sul fronte del turismo e dei beni di lusso.
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