Roma - Nella lettera di commiato da Palazzo Chigi di Matteo Renzi, pubblicata su Facebook l’11 dicembre, il presidente del Consiglio uscente ha scritto:
“Di solito si lascia Palazzo Chigi perché il Parlamento ti toglie la fiducia. Noi no”.
Renzi, però, dice una cosa falsa. In Italia solamente un presidente del Consiglio ha lasciato Palazzo Chigi perché il Parlamento non confermò la fiducia al suo governo: Romano Prodi, per ben due volte.
La prima volta fu la Camera, il 9 ottobre 1998, a non dare la fiducia al governo – a causa dello strappo di Fausto Bertinotti sulla manovra finanziaria per il 1999 – con 312 sì e 313 no. La seconda volta fu il Senato, il 24 gennaio 2008, con 156 sì e 161 no, a negare la fiducia: furono fondamentali i voti contrari dei centristi (Mastella e Barbato dell’Udeur, Lamberto Dini, Domenico Fisichella e Sergio De Gregorio di altre formazioni minori), più quello di Franco Turigliatto, di Sinistra Critica.
Tutte le altre crisi di governo della storia repubblicana italiana sono state di tipo “extra-parlamentare”, cioè non nate da un voto di sfiducia (o di mancata fiducia) dell’Aula ma da questioni politiche interne alla maggioranza.
Andando a ritroso a partire da Renzi, che si è dimesso per la sconfitta referendaria, abbiamo Enrico Letta: a febbraio 2014 lasciò Palazzo Chigi perché la direzione nazionale del Partito Democratico aveva approvato (con 136 sì, 16 no e 2 astenuti) una mozione proposta dal segretario Matteo Renzi in cui si chiedevano le sue dimissioni e la formazione di un nuovo governo.
Prima di lui Mario Monti, nel dicembre 2012, si era dimesso – anche se resterà in carica fino alle elezioni per il cosiddetto “disbrigo degli affari correnti” – perché il Popolo della Libertà aveva tolto l’appoggio al suo governo, pur non votando contro (il Pdl alla Camera si astenne, al Senato – dove astensione vale voto contrario – non partecipò agli scrutini, proprio per evitare una crisi parlamentare).
Prima ancora Silvio Berlusconi, a novembre 2011, si era dimesso perché la Camera aveva approvato il Rendiconto Generale del Bilancio dello Stato con soli 308 voti favorevoli, quando la maggioranza era di 316. Il provvedimento passò solo perché le opposizioni si astennero invece di votare contro: privato dunque della maggioranza parlamentare, il presidente del Consiglio rassegnò le dimissioni. E così via.
Nella Prima Repubblica le crisi nascevano regolarmente all’interno del sistema partitico, del resto caratterizzato da partiti forti e suddivisi in correnti. Così diversi governi democristiani furono affossati dalle competizioni interne, con dorotei, dossettiani, andreottiani, morotei, pontieri e via dicendo che si contendevano consensi e ruoli. Ma i cambi di governo nascevano regolarmente all’interno delle stanze di partito, non in Aula.
Anche contrasti tra partiti alleati al governo (tipicamente Liberali, Repubblicani, Socialisti, Democristiani) creavano non di rado crisi extra-parlamentari – gli accordi sulla “staffetta” tra presidenti del Consiglio di diversi partiti generavano spesso divergenze e scontri – ma, anche in questo caso, non accadde mai che un governo venisse formalmente sfiduciato in Parlamento.
Ci furono, al massimo, dei governi che si presentarono in Aula senza una maggioranza e furono immediatamente bocciati, ma non si può dire che avessero perso la fiducia, in quanto non l’avevano mai ottenuta. Fu il caso dei governi De Gasperi VIII nel 1953, Fanfani I nel 1954, Andreotti I nel 1972, Andreotti V nel 1979 e Fanfani VI nel 1987. Negli ultimi tre casi la cosa fu fatta apposta per poter arrivare alle elezioni anticipate. Nel 1987 la Dc addirittura fece cadere il proprio governo monocolore pur di andare al voto, mentre parte dell’opposizione votò la fiducia “a dispetto”.