Ha difeso il modello di business di Facebook basato sulla pubblicità; non ha chiuso la porta alla possibilità di versioni a pagamento; ha aperto a forme di regolamentazione ma che siano “corrette”, e “dipende dai dettagli”; si è scusato ancora una volta; ha affermato che Facebook è una azienda tech (non media) che però può essere comunque responsabile per i contenuti; ha confermato che saranno prese misure per aumentare il controllo e la trasparenza; e ha cercato di ribadire a più riprese quello che doveva essere, dal suo punto d vista, il messaggio centrale da veicolare: “la nostra missione è connettere le persone; dobbiamo fare in modo che queste connessioni siano positive e che gli strumenti che diamo siano usati per il bene”.
Le domande sbagliate
Un Mark Zuckerberg pallido, ma dalla voce cristallina e decisa, con il completo e la cravatta che tutti si aspettavano, ha risposto in modo umile, a tratti paziente, a tratti reticente, a una lunga sequela di domande da parte dei membri della commissioni Giustizia e Commercio del Senato, nella prima delle audizioni previste al Congresso.
Cambridge Analytica, interferenze russe, hate speech, privacy, la presunta censura di posizioni conservatrici da parte della piattaforma, dopamina e social media: i politici sono saltati di palo in frasca, concedendo in genere pochi minuti a Zuckerberg per rispondere, e mettendolo in difficoltà anche a causa di domande confuse, ingenue o che scoprivano l’ovvio (del genere “i termini di servizio sono incomprensibili”).
Nel complesso Zuckerberg ha tenuto botta, usando la tattica di rinviare ad aggiornamenti successivi (“Il mio team vi farà sapere”) ogni volta che non sapeva cosa rispondere. A metterlo alle strette sui contenuti sono state soprattutto le domande (poche) sulla posizione di monopolio di Facebook; e quelle sul comportamento tenuto dalla piattaforma rispetto al passaggio di dati finiti a Cambridge Analytica.
La questione monopolio
Alla domanda su quali fossero i suoi concorrenti, infatti, Zuckerberg ha iniziato a rispondere prendendola alla larga. “Pensa di avere un monopolio?”, ha incalzato a quel punto il senatore Lindsey Graham. “Non ho questa impressione”, ha risposto Zuckerberg, ammettendo poi a denti stretti di essere aperto a una qualche forma di regolamentazione “giusta”.
Altra difficoltà reale - e non dovuta alla impossibilità di capire alcune tortuose domande dei politici - è arrivata dal senatore Richard Blumenthal, secondo il quale nei termini di servizio usati da Aleksandr Kogan, il ricercatore che ha raccolto i dati sui 50 (poi 87) milioni di utenti, era inclusa la possibilità di un utilizzo commerciale. E che ciò sarebbe stata una violazione dell’ordinanza della Commissione federale per il commercio del 2011, che chiedeva a Facebook di proteggere i dati degli utenti da abusi di terze parti.
“Non vedo come possa cambiare il suo modello di business se non ci sono delle regole specifiche”, ha commentato il senatore. Per altro, Zuckerberg ha per la prima volta confermato pubblicamente che Kogan avrebbe venduto i dati a Cambridge Analytica. Altra nota dolente su cui hanno insistito vari senatori: perché Facebook non ha avvisato gli utenti coinvolti appena l’ha saputo, nel 2015?
La sfida agli hate speech
In generale la linea del fondatore di Facebook è riassumibile in questa frase: “All’inizio pensavo che bastasse costruire degli strumenti e darli alla gente; ora ho capito che dobbiamo avere un ruolo più attivo nel gestire l’ecosistema”.
Altre affermazioni interessanti sono state quelle sull’hate speech: diversamente dalla propaganda terroristica, per cui gli strumenti automatizzati per contrastarla funzionano bene, con i discorsi d’odio è molto più difficile perché più sottili da riconoscere e interpretare. Per sviluppare un sistema altrettanto efficiente ci vorranno dunque 5-10 anni, ha commentato Zuckerberg. Che ha dato anche un dettaglio sulle pagine e i profili di media collegati alla Internet Research Agency, la fabbrica di troll russa, rimossi ancora recentemente da Facebook: diffondevano disinformazione anche in Russia.
In conclusione, Zuckerberg non è uscito troppo ammaccato da questa audizione, ma più per demerito dei senatori che per la propria performance. Il punto più basso dell’audizione sono state probabilmente le domande complottiste del senatore Ted Cruz sulla predilezione liberal di Facebook. Sì, quel Ted Cruz che è stato cliente di Cambridge Analytica.