l viso sferzato dalla pioggia battente, Lukmann Mahmoud attraversa a passo deciso il cortile deserto sovrastato dalle due piramidi a base stellata del tempio di Lalish, nella provincia di Dohuk nel Kurdistan iracheno. Vestito del tradizionale copricapo yazidi, un foulard bianco e rosso arrotolato a mò di cappello, il cinquantenne cammina guardandosi i piedi. Nel luogo di culto più importante per la comunità yazidi regna il silenzio. E per quanto l’atmosfera raccolta inviti alla tranquillità, Lukmann si incupisce. La frequentazione del tempio è diminuita drasticamente negli ultimi cinque anni.
Se erano a decine a venire a pregare ogni giorno, da “dopo Daesh” sono perlopiù sporadici turisti e abitanti curdi dei dintorni a passeggiare tra queste mura di pietra. “Dopo Daesh”, un’espressione che dovrebbe indicare rinascita ma che a Lalish suona vuota, come le strade che dalla vicina cittadina Shekhan salgono verso il santuario. “Difficile rinsaldare la comunità, quando i rifugiati e gli sfollati yazidi sono ormai centinaia di migliaia. In Iraq, in Siria, Armenia e Georgia, fino in Germania (60.000 persone, la più vasta comunità yazidi all’estero)”, dettaglia questo esperto del culto millenario, giornalista part-time e insegnante di economia, geografia e storia. Secondo gli ultimi rapporti su 550.000 Yezidi in Iraq prima dell’arrivo dell’ISIS, quasi 100.000 hanno lasciato il paese. Molti altri ancora sono dispersi all’interno del Kurdistan iracheno.
Frequentazione in picchiata, tra i banchi e nel tempio
Anche tra i banchi della scuola municipale di Shekhan, molti mancano all’appello. “Prima avevo quasi 200 studenti, di cui almeno 75 ragazze. Ma dal 2013 a oggi non han fatto che diminuire e oggi ho a malapena 5 studenti yazidi”, s’intristisce il cinquantenne. “Molti giovani non vengono più a scuola. La maggior parte ha il padre in prigione o la madre dispersa. Non riescono più a studiare”.
Tacciandola di “infedele” e “miscredente”, lo Stato Islamico si è accanito contro questa comunità millenaria a partire dalla conquista di Mosul nel 2014 e ad oggi, più di 6.500 yazidi vivono oggi con le stigmate della prigionia nei ranghi dell’ISIS. Situato a nord-est di Mossul e antico di più di 4000 anni, il tempio di Lalish è stato risparmiato dalla furia distruttrice di Daesh. È tappa obbligata di pellegrinaggio per ogni fedele almeno una volta nella vita, ma anche durante l’ultima celebrazione tradizionale in ottobre, la frequentazione è rimasta bassa. “Somigliava molto poco a una festa”, ricorda uno dei due sacerdoti, noti ai credenti come Baba Sheikh.
Un’etnia che tenta di rigenerarsi dall’interno
Ali Simoqy, ricercatore sulla cultura Yezidi e lui stesso nativo di Sinjar, regione di origine della comunità, allarma sulle conseguenze dell’alienazione degli yezidi. “Alcuni decidono addirittura di abbandonare la loro fede e sposarsi al di fuori della comunità”. Suddivisi in tre caste, gli “adoratori dei sette angeli” si sposano di norma infatti solo tra di loro e all’interno dello stesso gruppo sociale, sotto pena di esclusione. Per mantenere l’unità, i capi spirituali di questa società gerarchica avevano dichiarato ufficialmente che ogni donna ex-prigioniera o schiava sessuale nelle file dello Stato Islamico aveva il suo posto nella società yazidi, sarebbe stata riaccolta e avrebbe potuto sposarsi all’interno di essa. Un appello che assume tutta la sua forza se si considera quanto sia forte ancora la presenza di delitti l’onore verso le donne vittime di crimini sessuali in Kurdistan come in Iraq e nella vicina Siria.
Ma nei fatti, gli yazidi appaiono oggi più che mai dispersi e divisi, in lotta per la sopravvivenza. In Sinjar e attraverso il Kurdistan iracheno, essi cercano all’interno della loro stessa comunità martoriata la forza di ricostruirsi.