Facce nuove, nessun erede. All’indomani della conclusione del diciannovesimo Congresso del PCC con l’inserimento di Xi Jinping nello statuto del Partito, la Cina ha scelto i nuovi leader del Comitato Permanente del Politburo, la cerchia ristretta del potere in Cina. Tra di loro, ci sono diversi alleati del presidente cinese e “nucleo” della leadership, ma nessuno di questi ha l’età per andare oltre i due mandati. Soprattutto, tra i nomi scelti per entrare nella squadra guidata da Xi, non compaiono eredi riconducibili alla sesta generazione di dirigenti del Partito Comunista Cinese, in grado di guidare il partito e il Paese per un decennio a partire dal prossimo Congresso, che si terrà nel 2022. Oltre a Xi Jinping, 64 anni, riconfermato nella carica di segretario generale del Pcc, tra i nuovi dirigenti compare anche Li Keqiang, 62, il primo ministro. Sono gli unici due a essere rimasti all’interno dell’organo al cuore del potere cinese. Il PCC andrà incontro a "nuovi obiettivi e nuovi compiti” perché "il socialismo con caratteristiche cinesi è entrato in una nuova era", ha dichiarato Xi. Per raggiungere l’obiettivo di una società moderatamente prospera entro il 2021, centenario della fondazione del PCC, Xi ha scelto alcuni tra i suoi più fidati consiglieri, e ha escluso i nomi più in vista dei giovani dirigenti politici del partito. L’obiettivo ultimo è portare la Cina a una posizione di primato globale entro il 2049. Partendo dal riequilibrio delle risorse per risolvere le nuove contraddizioni tra uno sviluppo economico forte ma sbilanciato e le nuove istanze sociali.
Xi è il leader più potente dopo Mao che la Cina abbia avuto, ma non è il nuovo Mao: si pone alla guida di un Paese che punta a creare un modello alternativo ai prototipi occidentali (“un’agenda di modernizzazione autoritaria che ha l’ambizione di essere un sincretismo originale cinese”), ma senza andare contro il Partito (vezzo maoista). Quella appena eletta non è una classe dirigente di rottura, vi sono diversi segnali di continuità e di equilibrio tra forze contrapposte: Xi raccoglie attorno a sé un enorme consenso. Pur essendo un leader senza precedenti, che ha guadagnato un potere quasi illimitato in pochissimo tempo, il suo potere non sembra tuttavia mettere in discussione il principio di leadership collettiva, posta al servizio di un credibile progetto di rinnovata grandezza nazionale; appare superato il pericolo di una eccessiva personalizzazione del potere, con l’inserimento di Xi nello statuto e del suo pensiero come principio guida del Partito. Ne consegue che chiunque si opponesse a Xi si collocherebbe automaticamente al di fuori del Partito. Continuità da un lato, ma dall’altro è stata clamorosamente abbandonata la prassi che prevedeva l’insediamento di un “erede presunto”. Non solo: avendo inserito il proprio “Pensiero" nello Statuto del Partito, Xi si è garantito una influenza perenne. Tutto questo fa pensare che il suo mandato andrà oltre i canonici dieci anni.
Su quali basi poggia la legittimità del 'presidente di tutto'? È più forte l’influenza di Xi sul partito o quella del partito su Xi? Sono solo alcune delle conclusioni e delle domande che emergono in questa doppia intervista a Giovanni Andornino, docente all'Università di Torino e vice presidente del Torino World Affairs Institute Twai, e a Filippo Fasulo, Coordinatore scientifico del CeSIF (Centro studi per l'impresa della Fondazione Italia Cina) e Research Fellow di Ispi. Abbiamo cercato di capire non solo quanto il potere di Xi Jinping emerga rafforzato da questo Congresso che lo ha incornato per la seconda volta segretario generale, e quanto sia verosimile tentare paragoni con il potere di Mao. Abbiamo anche analizzato la composizione della nuova leadership, tentando di interpretare i posizionamenti politici all’interno delle fazioni del partito e la direzione delle nuove politiche cinesi. A partire da quello che sembra l'elemento di maggior novità: l'ingresso di un ideologo, Wang Huning, teorico del neo autoritarismo (il Guardian lo ha già definito il "Kissinger cinese"), a conferma che nella "nuova era" di Xi l'ideologia avrà un fortissimo peso.
QUANTO IL POTERE DI XI JINPING SI È RAFFORZATO DOPO IL CONGRESSO?
Xi Jinping è entrato nel “pantheon” del Partito comunista cinese (PCC), con il suo nome scritto nello statuto del partito accanto al suo “pensiero sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. Il suo pensiero deve essere "una guida per l’azione del partito” all’interno del Pcc, ha sottolineato il Congresso nel testo della risoluzione con cui è stato adottato il pensiero di Xi. Mao fu l’unico leader cinese al quale spettò l’onore di entrare mentre era ancora in vita nella ‘carta’ con il suo pensiero, che venne accolto durante il settimo Congresso del partito, nel 1945, quattro anni prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese (RPC). La teoria di Deng Xiaoping, che teoria fu, e non pensiero, per non istituire paragoni con il “grande timoniere”, fu inserita nello statuto solo pochi mesi dopo la sua morte, nel 1997. Anche i suoi due predecessori al vertice del regime, Jiang Zemin e Hu Jintao, avevano elaborato teorie incluse nello statuto del partito, Le Tre Rappresentatività e lo Sviluppo Scientifico, ma senza che il loro nome venisse iscritto nel medesimo statuto.
Risponde Giovanni Andornino:
"Anche Deng Xiaoping ebbe la sostanza del proprio contributo ideologico - il “socialismo con caratteristiche cinesi” - iscritta nello Statuto del Partito mentre era ancora ai vertici del potere, nel 1992. Ma fu soltanto dopo la sua dipartita che questa innovazione assurse al livello di principio ideologico guida. Chiaramente ciò che è riuscito a Xitravolge tutti i precedenti, salvo il caso di Mao: al termine del primo mandato, mentre è con tutta evidenza soltanto all’inizio della sua parabola di potere, Xi riesce a vedersi riconosciuta esplicitamente la paternità di un contributo ideologico - il “socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era” - che diviene immediatamente “ideologia guida” del Partito. Siamo davanti a uno sviluppo formidabile: o il Partito ha superato i timori di derive personalistiche che avevano frenato simili ambizioni in precedenza, oppure Xi esercita sui suoi compagni un ascendente tale da aver travolto anche le resistenze di quanti per quarant’anni non hanno voluto conferire a nessun leader in carica il potere di fissare i dogmi dell’ideologia che regge la Cina".
"Una cosa è certa: il potere di Xi si è rafforzato in modo decisivo. Per due ragioni. La prima è proprio l’inserimento del suo “Pensiero sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era” nello statuto del Partito come “ideologia guida” e con l’espressa menzione del suo nome. Questo è il vero trionfo di Xi, un epilogo destinato ad avere implicazioni a lungo termine: il suo orientamento politico è stato ora sottoscritto al più alto livello e ridefinisce i contenuti della “saggezza collettiva” del Partito Comunista Cinese. Ne consegue che chi si opponesse a Xi si collocherebbe in automatico al di fuori del Partito. La seconda ragione per cui Xi emerge dal congresso come il leader cinese più potente da vent’anni a questa parte si coglie guardando alla composizione degli organi apicali del Partito. Non soltanto il neo-confermato Segretario Generale ha clamorosamente abbandonato la prassi che prevedeva l’insediamento di un “erede presunto” nel Comitato Permanente del Politburo durante il proprio secondo mandato - come accadde per lo stesso Xi tra il 2007 e il 2012 - ma ha anche gestito il ricambio deviando dalle norme consuetudinarie che riguardano l’anzianità dei candidati ai vertici e la loro vicinanza ai Segretari Generali precedenti. Due esempi speculari sono rappresentati da Hu Chunhua, Segretario del PCC nella provincia del Guangdong e Cai Qi, Segretario del PCC per la municipalità di Pechino: il primo, considerato un uomo del predecessore di Xi, Hu Jintao, e da molti indicato come potenziale erede di Xi, è stato confermato nel Politburo senza promozione; il secondo, neanche membro del precedente Comitato centrale ma molto vicino a Xi, è stato proiettato direttamente nel Politburo bypassando un cruciale passaggio nel cursus honorum dei dirigenti cinesi. Operazioni del genere rompono equilibri e richiedono notevole capitale politico".
Risponde Filippo Fasulo
"L’inserimento del pensiero di Xi Jinping nello statuto del Partito è uno dei segnali più evidenti del rafforzamento del potere del segretario generale: un’indicazione che lo pone sullo stesso livello di Mao Zedong e di Deng Xiaoping. L’ingresso del suo contributo ideologico è stato annunciato dai leader uscenti e dai media, quindi un segnale di forte riconoscimento. Opporsi a Xi significherà opporsi al Partito: oltre alle sue teorie, anche le sue iniziative politiche sono entrate nel Partito, risultando così difficilmente contestabili. Nello statuto, infatti, sono state iscritte anche le indicazioni delle due principali strategie politiche di Xi: l’iniziativa Belt and Road e la riforma strutturale sul lato dell’offerta, ovvero l’elemento chiave della strategia del “New Normal” che punta a un miglioramento della produttività e del tessuto industriale cinese, e che racchiude al suo interno gli obiettivi del taglio della sovraccapacità e del Made in China 2025. In altre parole: la politica economica di Xi viene oggi indicata come l’elemento fondamentale nelle linee guida del Partito. Cruciale l’obiettivo di risolvere le nuove contraddizioni emerse nel tessuto economico e sociale cinese. La Cina riconosce il raggiungimento di alcuni importanti obiettivi negli ultimi 20 anni, tra i quali la riduzione della povertà e i grandi sforzi compiuti per migliorare le condizioni economiche del Paese, e oggi intende eliminare le contraddizioni che persistono fra l’obiettivo di migliorare ancora le condizioni dei cittadini cinesi e la necessità di una crescita bilanciata e uguale".
È PIÙ FORTE L’INFLUENZA DI XI SUL PARTITO O QUELLA DEL PARTITO SU XI?
Risponde Giovanni Andornino:
"Xi non avrebbe potuto concentrare nelle proprie mani tanto potere senza il concorso - o quantomeno la benevola neutralità - di ampi settori del Partito. Evidentemente, dovendo scegliere tra una leadership collegiale esposta al rischio dei veti incrociati e una forte spinta accentratrice che rende il Segretario Generale un primus inter inferiores, il grosso dei quadri dirigenti ha optato per la seconda strada. Cedono parte del proprio potere discrezionale - a Xi e alle nuove istituzioni che questi sta organizzando affinché sia garantita una governance più efficiente e legalizzata - avendo in cambio una guida capace di articolare un ambizioso e credibile progetto di rinnovata grandezza nazionale. Detto questo, sappiamo ormai ufficialmente che non tutti sono d’accordo e nel Partito c’è addirittura chi ha provato a rovesciare Xi: quando Liu Shiyu, presidente della China Securities Regulatory Commission, ha rivelato che una serie di alti papaveri hanno tentato di “usurpare” il potere, ha chiarito come molti interventi disciplinari sin qui spiegati come azioni di contrasto alla corruzione sono in realtà epurazioni legate e cospirazioni politiche al più alto livello".
XI È IL NUOVO MAO?
Risponde Giovanni Andornino:
"No: da una parte, Mao puntava a trasformare radicalmente la Cina secondo una ideologia che si contrapponeva frontalmente al modello occidentale e, dall’altra, fu sempre ambivalente rispetto all’istituzionalizzazione della rivoluzione. Il Partito era di fatto nelle sue mani, eppure egli arrivò al punto di minarlo alle fondamenta durante la Rivoluzione culturale. Pur nella complessità della sua personalità, che è molto cambiata nei lunghi anni della guerra civile e ancora di più nella fase del potere, Mao fu visceralmente comunista e il suo lascito ideologico è appunto la sinizzazione del marxismo (questo è il “Pensiero di Mao Zedong). Con Xi siamo su tutt’altra traiettoria: ideologicamente, è se mai erede di Deng Xiaoping: guida una Cina che ha attinto e continuerà ad attingere agli strumenti dell’Occidente finalizzandoli a un’agenda di modernizzazione autoritaria che ha l’ambizione di essere un sincretismo originale “cinese”. Quanto agli strumenti per perseguire questa visione, a differenza di Mao, Xi non vede nella burocrazia del Partito una minaccia alla purezza della rivoluzione, ma lo strumento per eccellenza con cui realizzare il rinascimento della nazione cinese. L’orizzonte è la grandezza istituzionalizzata della nazione cinese in un ordine internazionale stabile, per citare il Rapporto politico letto da Xi il 18 ottobre scorso, non la rivoluzione proletaria e un nuovo ordine mondiale".
Risponde Filippo Fasulo:
"La risposta non può che essere interlocutoria. Da un lato, non si può negare che l’indicazione del suo nome all’interno dello statuto del Partito lo elevi a un paragone con Mao. Dall’altro, i nomi scelti per nominare la nuova leadership segnalano la volontà o la necessità di mantenere un certo equilibrio di potere. Resta per il momento inalterato il principio della leadership collettiva, che alcuni osservatori avevano visto in pericolo dato lo strapotere assunto da Xi, soprattutto in assenza della designazione di un erede, come è di fatto stato. Ma è ancora troppo presto per trarre ragionate conclusioni. Mao diventa Mao dopo venti anni di guerra civile e quindici di governo prima di arrivare alla Rivoluzione Culturale, che inaugura l’epoca buia dominata da una eccessiva personalizzazione del potere sfociata nel culto della personalità, con esiti drammatici. Xi Jinping ha una storia diversa e recentissima: si affaccia al potere nel 2007 (quando entra nel comitato permanente del Politburo) e sale ai vertice nel 2012 (quando viene nominato segretario generale del PCC; l’anno dopo ottiene la nomina di presidente della Repubblica Popolare Cinese, RPC). Fino a dieci fa, dunque, Xi era ancora a governare a livello locale (Fujian, Zhejiang, Shanghai). Quello che ci deve colpire è la velocità con cui Xi ha ottenuto lo strapotere che detiene oggi. Nei primi cinque anni del suo governo, abbiamo continuato a parlare dell’amministrazione Xi Jinping-Li Keqiang, utilizzando vecchie formule, mentre la posizione di Li Keqiang si stava indebolendo".
"Il South China Morning Post lo descrive come il leader che passa dalla gratificazione del suo modello Likonomics al prendere ordini dall’alto, visto che da oggi ad avere peso sarà solo la strategia di Xi, che è stata inserita nello statuto. Il fatto che Xi stesse prendendo il controllo della politica economica era già emerso ad appena un anno dal diciottesimo congresso che lo aveva consacrato segretario generale, ovvero nel 2013 con le riforme del terzo plenum, quando furono creati nuovi organi, quali il Central Leading Group for Comprehensively Deepening Reforms. Resta da capire come Xi sia riuscito a prendere le redini così velocemente. Su cosa si basano il suo consenso e la sua legittimità? Indubbiamente ha costruito relazioni all’interno del Partito. Ma ci troviamo di fronte a un leader senza precedenti, che guadagna potere quasi illimitato in tempo di pace. Mao veniva dalla rivoluzione che aveva portato alla nascita della RPC. Deng era sopravvissuto alla rivoluzione culturale. Entrambi avevano una legittimità chiara. Xi fa un percorso normale all’interno del partito e riesci a farsi accreditare in pochissimo tempo come il leader più forte. Il “ritorno alla grandezza della nazione” si conferma come il suo slogan più significativo, enunciato fin dai primi giorni del suo primo mandato, quando parlò per la prima volta del “sogno cinese” di rinascimento della nazione cinese. L’idea è di tornare agli albori, al momento in cui la Cina era prima nel mondo. La Cina non diventerà prima ma tornerà ad occupare un ruolo che le spetta di diritto, una posizione naturale, dunque, senza sottrarre potere a nessuno".
COSA CI DICONO I NOMI DEI NUOVI LEADER IN TERMINI DI RAFFORZAMENTO IDEOLOGICO E DI INDIRIZZI POLITICI?
Risponde Filippo Fasulo:
"L’impressione è che si sia voluto mantenere un bilanciamento. Quello che emerge dalla prima sessione plenaria del comitato centrale non è un Politburo di rottura. Oltre alla riconferma di Xi come segretario generale (sui cui si avevano pochissime incertezze), Li Keqiang è stato riconfermato premier. Se ci fosse stata una intenzione di rottura, si sarebbe trovata una forma per estrometterlo. Emerge altresì la volonta di promuovere personaggi vicini a Xi".
"Li Zhangshu è il leader più vicino (è il più anziano dei nuovi membri del Comitato Permanente, con i suoi 67 anni di età, fino a oggi capo dell'Ufficio Generale del Comitato Centrale, e membro del Politburo, è stato visto come una figura equivalente al chief of staff del presidente cinese)".
"Wang Huning ha una lunga esperienza come teorico del PCC (62 anni, viene dipinto dal South China Morning Post di Hong Kong come il principale teorico del Pcc. Prenderebbe il posto di Liu Yunshan, che aveva guidato il dipartimento della propaganda per dieci anni prima dell'ascesa al Comitato Permanente). Negli ultimi venti anni ha esercitato una lunga, quasi nascosta, influenza nella vita politica cinese; alcuni studiosi lo considerano il maggior ispiratore delle teorie di Jiang Zemin (tre rappresentatività), Hu Jintao (sviluppo scientifico) e Xi Jinping (il sogno cinese). Dunque si tratta di un leader che ha coltivato ottimi rapporti con i predecessori. Oggi è nel giglio magico di Xi, ma si tratta di un personaggio che è sopravvissuto a molte tempeste. In una fase in cui uno dei temi principali che riguardano il futuro della Cina, è se il modello cinese che punta a diventare più sostenibile possa o meno diventare esportabile, la nomina di Wang, il principale esponente del neo autoritarismo (corrente che ha preso piede alla fine degli anni ’80 promuovendo l’idea che l’accentramento del potere e un governo forte fosse necessario per migliorare le condizioni economiche del Paese), rappresenta il rafforzamento dell’idea che tale modello abbia una sua forte strutturazione e identità. E conferma che la Cina proseguirà su un percorso lontano dai modelli occidentali. Potrebbe rappresentare una pietra tombale per le speranze di adozione della democrazia liberale in Cina”.
"Zhao Leji è vicino a Xi ma appare come una figura intermedia. Non è vicino al presidente come Li Zhangshu, ma ha lavorato molto vicino a Wang Qishan, l’ormai ex zar anticorruzione di cui ha preso il posto, una nomina che a una prima interpretazione, potrebbe rappresentare una sorta di garanzia sul sulla continuità con la strada intrapresa da Wang Qishan (1, 3 milioni di funzionari puniti nei primi cinque anni)".
"Han Zheng è infine un nome interessante perché ha caratteristiche ibride: è stato in passato molto vicino a Jiang Zemin, e dunque alla “cricca di Shanghai”, ha poi lavorato con l’attuale presidente cinese quando Xi era segretario generale di Shanghai, ed è sopravvissuto a una serie di scandali politici, come la strage di capodanno di Shanghai nel 2015, quando la dirigenza fu altamente criticata. Han Zheng era inoltre in carica quando fu lanciata nel 2014 la Shanghai Pilot Free-Trade Zone, partita con grandi prospettive diluite poi in diverse iniziative simili in altre zone della Cina, senza incontrare l’entusiasmo di Xi.
"Significativa la presenza di Wang Yang sul lato economico. Il fautore del ‘modello Guangdong’, leader liberale, potrebbe dare una forte spinta all’ innovazione, all’apertura economica e forse alle necessarie riforme strutturali".
"Infine, la riconferma di Li Keqiang ci dà l’idea di continuità, seppur la sua strategia economica risulti indebolita nei confronti di quella di Xi Jinping".
Risponde Giovanni Andornino:
"Una macchina del partito efficace, riforme finalizzate alla competitività dell’economia cinese, e un apparato teorico che integri le energie della società e il Partito-Stato secondo un modello internazionalmente riconosciuto come legittimo, credibile e attraente: sono questi gli assi portanti del socialismo cinese per la nuova era teorizzato da Xi. Un autoritarismo tecnocratico impegnato in un progetto di ricostruzione di un Cina ricca, forte e con orizzonti globali. A mio parere si può leggere così la nomina di una figura come Liu He, considerato il guru di Xi in campo economico, nel Politburo, e di Wang Huning, ex professore universitario divenuto il grande ideologo del Partito sotto tre leader (Jiang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping), Li Zhangshu e Zhao Leji nel Comitato Permanente".
XI SENZA EREDE: COSA SIGNIFICA?
Risponde Filippo Fasulo:
"Ancora non lo sappiamo. Le scelte di oggi, per il momento, ci lasciano più dubbi che certezze. L’assenza di una linea di successione può voler significare due cose. Primo: Xi non vuole un erede. Secondo: non ha avuto la forza di indicare l’erede che vuole lui. C’è però anche un altro aspetto da considerare sul sistema politico cinese nel complesso. Il processo di istituzionalizzazione, che a partire dal passaggio dalla terza (Jiang) alla quarta generazione (Hu) prevedeva l’indicazione di un erede con un ampio margine di anticipo evidentemente non è più una certezza, rendendo le nostre analisi ancora più complicate. Dopo le due leadership carismatiche di Mao e Deng, a partire dagli anni’90 si definisce un percorso che vede alla guida del paese una generazione per circa un decennio, rappresentata da un paramount leader che detiene l’incarico di Segretario generale del Pcc, Presidente della Rpc e Presidente di un organo di controllo delle forze armate. Nel passaggio da una generazione all’altra si è inoltre indicato il successore con largo anticipo, Hu Jintao addirittura all’inizio degli anni ’90 e Xi Jinping – affiancato da Li Keqiang – già nel 2007. La scelta del successore, tuttavia, non è appannaggio del solo leader uscente, tanto che Hu venne sostenuto da Deng prima della morte nel 1997, mentre Xi Jinping risulterebbe essere stato al momento della sua ascesa più vicino a Jiang, quando l’uscente Hu Jintao gli avrebbe preferito l’attuale numero due Li Keqiang".
"Da questi elementi risulta evidente il peso che gli ex leader continuano ad esercitare anche quando lasciano gli incarichi. Tuttavia, probabilmente anche grazie alla forte ascesa di Xi, oggi Hu Jintao sembra che si sia ritirato del tutto dalla vita politica, mentre Jiang Zemin, fino a qualche anno fa considerato come personaggio sotto la cui ombra si giocavano i destini politici del partito, sembra essere svaporata. Se non altra per motivi anagrafici (Jiang ha 91 anni), senza considerare la forte azione della campagna anti-corruzione che ha colpito persone a lui vicine. L’indicazione del futuro leader avveniva tramite la promozione di qualcuno talmente giovane da poter sostenere due quinquenni ai vertici dopo che tutti coloro più anziani di lui avevano già superato il limite dei 67 anni. Il fatto che Hu Chunhua e Chen Min’er siano stati entrambi esclusi dai sette membri più importanti fa sì che oggi non ci sia nessuno che fra cinque anni abbia un orizzonte di altri dieci anni ai vertici prima della pensione. Alcune interpretazioni, però, suggeriscono che possano essere promossi anche in un secondo momento o che la fase di “apprendistato” fatta da Hu e Xi in passato possa essere svolta in qualche altra maniera. Di certo il paradigma che si credeva consolidato è mutato e fra cinque anni ci troveremo con tre possibili scenari inediti: 1) Xi Jinping segretario generale per più di dieci anni 2) un nuovo segretario generale troppo anziano per fare due quinquenni prima dei 67 anni 3) un nuovo segretario generale sufficientemente giovane per i due quinquenni, ma senza una precedente esperienza nel Comitato permanente del politburo, ritenuto un elemento di formazione e continuità".
Qualcuno sostiene che possano esserci alcune promozioni e cambi nei prossimi plenum, nei quali attendersi nuove promozioni.
Risponde Giovanni Andornino:
"Da una parte, rende più plausibile che Xi non si ritiri dalle cariche istituzionali dopo i consueti due mandati - come avvenuto per i suoi due predecessori negli ultimi vent’anni - ma resti ai vertici del Partito-Stato per un terzo mandato (2022-2027). Ma anche in presenza di un futuro erede, avendo inserito il proprio “Pensiero" nello Statuto del Partito, Xi si è garantito una influenza perenne, essendo egli stesso l’interprete autentico di ultima istanza dell’ideologia-guida che ispirerà l’indirizzo dell’intero apparato politico-burocratico cinese verosimilmente finché sarà attivamente impegnato nella vita politica del Paese".
DOPO LOTTA ANTI-CORRUZIONE, ARRIVA L’ERA DELLE RIFORME?
Risponde Filippo Fasulo:
"Sì. Le sfide economica che attende la Cina riguardano il debito, la sovraccapacità, la necessità di trovare nuove fonti di crescita, la transizione verso un modello più sostenibile".
Risponde Giovanni Andornino:
"Diciamo che continuerà ancor più vigorosa l’azione riformista, ma si tratterà di riforme diverse da quelle che ci aspettiamo. Dal 1978 siamo stati abituati ad associare l’idea delle “riforme” in Cina a un percorso orientato verso una convergenza del sistema economico cinese rispetto al modello occidentale. E per più di tre decenni è stato effettivamente così: riforme strutturali implementate con l’obiettivo di consentire alla Cina di accedere ai flussi dell’economia globale. Questa fase “negoziale” in cui Pechino versava in una posizione di relativa debolezza - e dalla quale le nostre imprese hanno tratto grande beneficio - è alle nostre spalle. L’indirizzo strategico che sembra emergere dal rapporto politico presentato da Xi in apertura del 19° Congresso, dalle nomine della nuova dirigenza, e dalla modifica dello Statuto del PCC, parla di un potenziamento della capacità di governance del Partito-Stato, di azioni volte a incrementare la competitività dell’economia cinese, e del superamento della posizione reattiva della Cina nelle relazioni internazionali (venendo meno al famoso monito di Deng a non cercare posizioni di leadership). Non mi aspetto, quindi, che a Pechino si disegnino spontaneamente riforme del genere auspicato, ad esempio, dalla Camera di Commercio dell’Unione Europea a Pechino, o dalla stessa Commissione UE. Politiche che, aprendo a una competizione più equilibrata tra imprese e investitori cinesi e internazionali, possano rallentare i disegni di primato che si colgono in filigrana nel discorso ufficiale cinese mi sembrano poco verosimili. Naturalmente la Cina non balla da sola: molto dipenderà dalle reazioni di Stati Uniti e Unione Europea".
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