Stop all’importazione di scarpe e vestiti usati provenienti da Stati Uniti e Europa per favorire lo sviluppo dell’industria tessile locale ed arrivare a coprire il fabbisogno in vestiti. È cominciato il riscatto dell’Africa anche per quanto riguarda l’abbigliamento e il look, quando nel 2015 la Comunità dell’Africa orientale (East African Comunity) ha deciso di vietare il commercio dei capi di abbigliamento usati importati dai paesi occidentali.
Il provvedimento, che entrerà in vigore dal 1° gennaio 2019 in Ruanda, Uganda e Tanzania, non è ben accolto da Washington, che esercita crescenti pressioni sui paesi africani per bloccarne l'attuazione. Ogni anno gli Stati Uniti esportano circa 124 milioni di dollari di vestiti di seconda mano in questi tre paesi dell’Africa orientale. In base a stime disponibili, in media tutta l’Africa orientale importa vestiti usati per 350 milioni di dollari, un fatturato che aumenta ogni anno del 60%.
Tra i più agguerriti detrattori c’è la lobby statunitense di questo settore redditizio, la Secondary Materials and Recycled Textils Association (SMART), un centinaio di aziende dell’abbigliamento usato che hanno già chiesto la revisione di agevolazioni commerciali per migliaia di prodotti africani esportati negli Stati Uniti senza diritti doganali. Per questa lobby la decisione di Uganda, Tanzania e Ruanda rappresenta una violazione delle misure previste dall’African Growth Opportunity Act (AGOA, Patto africano per la crescita e le opportunità), in particolare quella che riguarda l’eliminazione di barriere commerciali con gli Usa.
Argomenti categoricamente respinti da Belinda Edmonds, direttrice dell’African Cotton and Textiles Industries (ACTI), associazione commerciale che raggruppa esponenti del settore del cotone e tessile di 24 paesi africani.
Ma il Kenya si dissocia
“La stragrande maggioranza dei capi di seconda mano importati da noi non sono neanche fabbricati negli Usa né hanno subito in quel paese processi di trasformazione significativi. Per di più una buona parte sono vestiti fuori moda o provenienti da stock invenduti per anni” ha sottolineato la Edmonds.
Il Kenya, inizialmente associato all’iniziativa dei paesi vicini, ha ceduto alle pressioni americane e deciso di non chiudere la porta ai vestiti di seconda mano. Il Kenya temeva di perdere accesso al mercato degli Stati Uniti, suo terzo partner commerciale. Dar es Salaam, Kampala e Kigali invece tengono duro e si stanno adoperando per eliminare i ‘Mitumba’, che in lingua locale significa ‘cadavere’, nome dato nella regione ai vestiti usati importati.
Del resto i numeri giocano a loro favore: nel 2016 quei tre paesi esportavano merci negli Usa per circa 43 milioni di dollari mentre le importazioni americane ammontavano in 281 milioni di dollari. Secondo l’economista dello Zimbabwe, Brian Muruverwi, “il divieto sarà costoso e avrà benefici limitati sul lungo termine, per non parlare del rischio di crescita del commercio illegale di vestiti”.
Il caso del cotone ugandese
Per Harry Sullivan, responsabile delle questioni economiche africane al dipartimento di Stato Usa, “non avendo più altra scelta, ci chiediamo se queste popolazioni avranno la possibilità di comprarsi vestiti nuovi sul mercato dell’Eac. Sarebbe stato meglio incoraggiare la classe media ad acquistare abbigliamento di produzione locale piuttosto che vietare del tutto le importazioni”.
Ad esempio in Uganda il cotone è il terzo prodotto di esportazione agricolo dietro caffè e tè. Pur avendo una capacità di trasformazione della materia prima per circa 200mila tonnellate, solo il 5% della produzione di cotone viene lavorata sul posto a causa della concorrenza dei tessuti importati dall’Estremo Oriente e dell’importazione dei vestiti usati.
Il governo ruandese ha ribadito pochi giorni fa la sua volontà di “promuovere il Made in Ruanda nel tessile e nel pellame” per “colmare il deficit commerciale riducendo le importazioni di beni che possono essere prodotti localmente quali scarpe e vestiti” ha detto il ministro del Commercio e dell’Industria, Vincent Munyeshyaka. L’obiettivo è quello di ridurre le importazioni di prodotti manufatti da 124 milioni nel 2015 a 33 milioni nel 2019 e creare più di 25 mila posti di lavoro. “Ora sappiamo di poter fabbricare in casa diversi tipi di abbigliamento a prezzi abbordabili. Questa opzione offre sbocchi sicuri ai nostri produttori di cotone. È la giusta decisione da prendere” ha spiegato il primo ministro della Tanzania, Kassim Majaliwa.