Il commercio, il Mare Cinese Meridionale, le accuse alla Cina di interferenze nelle linee di politica interna, i sospetti di spionaggio e di cyber-spionaggio sono i capitoli principali di attrito tra Pechino e Washington alla vigilia dell’attesissimo incontro tra il presidente Usa, Donald Trump, e il presidente cinese, Xi Jinping, a margine del vertice del G20 di Buenos Aires.
I riflettori sono puntati soprattutto sulle questioni commerciali, e su una possibile tregua tra Cina e Stati Uniti nella disputa tariffaria, ma Cina e Usa oggi parlano linguaggi differenti, se non addirittura in aperto contrasto: è risultato evidente in occasione dell’ultimo vertice dei Paesi membri dell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) che per la prima volta dal 1993 non ha prodotto un comunicato congiunto dei leader delle economie che si affacciano sul Pacifico, proprio per le divisioni tra “i due giganti nella stanza”, come li ha definiti il primo ministro della Papua Nuova Guinea, Peter O’Neill, padrone di casa dell’edizione di quest’anno del vertice.
Le tariffe della discordia
Il commercio e la disputa tariffaria tra Cina e Stati Uniti saranno in cima all’agenda dell’incontro tra Xi e Trump a Buenos Aires, come tutte le anticipazioni lasciano prevedere, anche se le aspettative delle ultime ore ridimensionano la possibilità di un accordo complessivo sulla questione. Il quotidiano China Daily, non a caso, fa appello alla “ragionevolezza” di Cina e Usa per raggiungere una “soluzione accettabile per entrambe le parti”, e dal Ministero degli Esteri di Pechino, il portavoce, Geng Shuang, ha chiesto agli Usa “sincerità” nell’affrontare con la Cina la disputa commerciale, che vede già oggi centinaia di miliardi di dollari di merci sottoposte a tariffe in entrambi i sensi, e che potrebbe ulteriormente inasprirsi a partire dall’inizio del 2019, in caso di mancato accordo tra Cina e Usa.
Nella disputa sul commercio sono comprese anche le questioni del rispetto della proprietà intellettuale e dei trasferimenti di tecnologia, su cui si concentra l’azione dello Us Trade Representative, Robert Lighthizer, e su cui Pechino non ha dato una risposta ritenuta completamente accettabile a Washington, con “quattro o cinque cose” che restano ancora da discutere secondo quanto dichiarato nei giorni scorsi dallo stesso Trump.
Un prima linea di falchi
L’appuntamento tra i due si conferma ostico, anche per la presenza di uomini dell’amministrazione Usa noti per la linea dura con Pechino, come il Consigliere per il Commercio della Casa Bianca, Peter Navarro. A mostrare fiducia in una tregua è il Wall Street Journal, che cita fonti di Pechino e di Washington secondo cui Cina e Stati Uniti stanno pensando a una pausa nella disputa tariffaria fino alla prossima primavera in attesa di nuovi colloqui e di grandi cambiamenti nella politica cinese.
Funzionari di Cina e Stati Uniti sono in continuo contatto, secondo quanto confermato anche ieri dal Ministero del Commercio cinese, ma ancora non è chiaro se la cena di domani sera a Buenos Aires produrrà un accordo tra Xi e Trump. Una delle possibilità che si possono aprire, secondo funzionari cinesi citati dal quotidiano Usa, è che in cambio di uno stop temporaneo all’escalation sulle tariffe, la Cina revochi le restrizioni agli acquisiti di beni agricoli e di energia dagli Usa.
“La Cina vuole boicottare Trump”
Il commercio non l’unico terreno di scontro. Uno dei momenti di maggiore tensione tra Cina e Stati Uniti risale al 4 ottobre scorso, quando il vice presidente degli Stati Uniti, Mike Pence, ha attaccato duramente la Cina in un discorso all’Hudson Institute di Washington. “La Cina vuole un altro presidente americano”, aveva detto alla platea del think-tank Usa, a causa della linea dura di Trump nei confronti di Pechino. il numero due della Casa Bianca ha accusato la Cina di usare “mezzi economici, politici e militari, e la propaganda, per aumentare la propria influenza a beneficio dei propri interessi negli Stati Uniti”.
Accuse durissime, che Pechino aveva già smentito nelle settimane precedenti, ma sulle quali lo stesso Trump è tornato, durante un’intervista a “60 minutes” della Cbs alcuni giorni dopo: le interferenze cinesi sono “un problema più grosso” di quelle russe aveva detto. Proprio ieri, un rapporto di 213 pagine compilato da un gruppo di studiosi statunitensi, smentisce l’ipotesi di interferenze elettorali negli Stati Uniti, ma rivela il tentativo della Cina di esercitare la propria influenza negli Usa attraverso le corporation, i finanziamenti alle università e la diffusione dei media in lingua cinese.
“Con l’eccezione della Russia”, scrivono gli studiosi dell’Hoover Institution e dell’Asia Society’s Center on Us-China relations, citati dal Washington Post, “gli sforzi di nessun altro Paese di influenzare la politica e la società americana sono cosi estesi e ben finanziati come quelli della Cina”.
Un mare di problemi
Sempre dal numero due della Casa Bianca erano state spiccate nuove accuse alla Cina nelle scorse settimane, durante i summit asiatici di Singapore e Port Moresby, in Papua Nuova Guinea. Obiettivo principale delle dure affermazioni di Pence sono state le rivendicazioni territoriali di Pechino nel Mare Cinese Meridionale, e il ruolo dell’iniziativa di connessione infrastrutturale tra Europa, Asia e Africa Belt and Road, lanciata da Xi nel 2013: una vera e propria “cintura di forza” l’ha definita il vice presidente Usa, con cui Pechino “stritola” e “annega” i suoi partner “in un mare di debiti”. Il Mare Cinese Meridionale è stato anche negli ultimi giorni al centro degli “esercizi di libertà di navigazione” degli Stati Uniti, che Pechino vede come incursioni in acque che considera proprie, e per i quali ha sporto protesta formale.
La Cina considera non intende cedere “nemmeno un pollice” nelle sue rivendicazioni territoriali e marittime, come aveva detto a giugno scorso Xi al segretario alla Difesa Usa, James Mattis, nonostante un verdetto del 2016 della Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia abbia negato la validità di qualsiasi rivendicazione storica o giuridica su quelle acque espressa da Pechino. La tensione sul Mare Cinese Meridionale è salita al punto più alto il 30 settembre scorso, quando un cacciatorpediniere Usa e uno cinese hanno sfiorato l’incidente navale a casa di una manovra “non sicura e non professionale” da parte della Cina, secondo la versione Usa dell’episodio.
L’incidente aveva compromesso anche la seconda edizione del Dialogo su Diplomazia e Sicurezza tra Cina e Stati Uniti, inizialmente annullato tra accuse reciproche e che si è poi tenuto nelle scorse settimane a Washington.
Il sospetto corre sul 5G
L’ultimo capitolo di controversia tra Pechino e Washington, emerso negli scorsi giorni, riguarda il ruolo della tecnologia. Il rischio di una “guerra fredda tecnologica” è emerso da un’indagine condotta dal Wall Street Journal: la Casa Bianca ha esercitato pressioni sugli alleati - tra i quali vengono citati Germania, Italia e Giappone - per abbandonare la tecnologia del 5G sviluppata dalla Cina e in particolare dal gruppo Huawei su timori di sicurezza informatica, soprattutto in Paesi dove sono presenti basi militari statunitensi.
All’inchiesta condotta dal quotidiano finanziario Usa ha risposto il tabloid più aggressivo sulla difesa della politica estera cinese, il Global Times. “Data l’influenza politica che gli Stati Uniti hanno sui loro alleati, la loro richiesta metterà pressione su questi Paesi”, ha scritto sabato scorso il giornale pubblicato dal Quotidiano del Popolo, organo di stampa del Partito Comunista Cinese. “D’altro canto, questi Paesi usano i prodotti Huawei da molti anni e riconoscono ampiamente i vantaggi tecnologici di Huawei”.
L’avvertimento di Pechino agli europei
Per il Global Times, “seguire gli Usa in una ‘guerra fredda tecnologica’ con la Cina significa enormi perdite commerciali per i Paesi europei e per altri, come il Giappone”. Le preoccupazioni per il ruolo di Huawei nello sviluppo del 5G sono, però, riemerse nel corso di questa settimana, in un Paese apparentemente lontano dalle tensioni sullo scacchiere geopolitico su cui si muovono Pechino e Washington: la Nuova Zelanda. Wellington ha fermato uno dei suoi maggiori gruppi delle telecomunicazioni dall’acquisto di tecnologia per il 5G dal colosso di Shenzhen, sulla scorta di una mossa simile messa in atto ad agosto scorso dall’Australia, accolta con sospetto e preoccupazione a Pechino. La divisione neozelandese di Huawei ha in seguito affermato di non avere ricevuto avvisi riguardo al bando tecnologico da parte delle autorità neozelandesi e ha negato di avere commesso illeciti.