Gli Stati Uniti si preparano al censimento del 2020 e scoppia la polemica. Il motivo è l’intenzione di tornare a chiedere, nel questionario che gli abitanti sono tenuti a compilare, la cittadinanza del rispondente. Tradotto, significa domandare se si è in possesso del diritto di vivere nel Paese.
È dal 1950 che una domanda simile non trova posto nel censimento. Qui il documento con le informazioni che il Census Bureau intende richiedere.
“Non soltanto una conta di teste”
La richiesta di reinserire la cittadinanza nel questionario è stata presentata dal segretario al Commercio Wilbur Ross al sottosegretario per gli Affari Economici Karen Dunn Kelley. Come si legge nel documento, la richiesta è arrivata dal Dipartimento di Giustizia lo scorso 12 dicembre. In particolare, l’Ufficio censimento è stato pregato di “reinserire la domanda sulla cittadinanza […] per fornire i dati relativi alla popolazione in età di voto”.
Si tratta di informazioni che oggi non sono disponibili e che servirebbero per “determinare violazioni del Voting Rights Act”, cioè la legge del 1965 che concesse il diritto di voto ai cittadini neri. Il censimento, svolto ogni dieci anni e che ha un costo che supera i 45 dollari a testa (la cifra prevista per il 2020 è di 15,6 miliardi di dollari), “non è una semplice conta delle teste”, ha commentato il New York Times.
“È un ritratto dell’America che determina la distribuzione proporzionale dei seggi al Congresso e dei fondi federali in settori come scuola e ospedali”, oltre a consentire alle imprese di scegliere con maggiore oculatezza dove investire. Considerata l’importanza delle conseguenze, quindi, il quotidiano newyorkese suggerisce di “contare in maniera accurata”.
Meglio il silenzio
La decisione di riproporre la questione sulla cittadinanza – cioè il completo godimento dei diritti civili e politici – sta facendo aumentare i timori per una diminuzione nella partecipazione al censimento, “in modo particolare per gli immigrati e i gruppi minoritari che stanno manifestando disagio nel rispondere alle domande”, riporta il Nyt. Il giornalista di National Public Radio (Npr) Hansi Lo Wang ha spiegato che una mossa del genere rischia di spingere molti immigrati a non rispondere: “non soltanto quelli senza documenti, ma anche chi ha un legame affettivo o lavorativo con chi non ha la cittadinanza”.
E poco importa, secondo chi è contrario al reinserimento della domanda, che negli Stati Uniti sia in vigore la cosiddetta Legge dei 72 anni, quella cioè che impedisce di rendere pubblici i dati personali dei rispondenti prima che siano trascorsi 72 anni, arco di tempo in cui possono essere usati in forma aggregata. Il timore, si legge su Npr, è che le informazioni sui singoli abitanti possano comunque essere utilizzate per motivi legali. A questo link il sito del censimento del 1940, l’ultimo del quale siano stati pubblicati i dettagli.
La questione è delicata: per dare l’idea di quanto sia importante il censimento decennale degli Stati Uniti è sufficiente sapere che, soltanto nell’anno fiscale 2015 (che si chiude a fine settembre), 132 programmi governativi per un totale di 675 miliardi di dollari hanno utilizzato le informazioni raccolte dal questionario.
Le reazioni della politica
La polemica non si è però fermata soltanto alle associazioni che si occupano di diritti civili. Anche la politica ha reagito con decisione; quattro senatori democratici - Kamala Harris della California, Tom Carper del Delaware, Gary Peters del Michigan e Claire McCaskill del Missouri — hanno chiesto a Wilbur Ross di testimoniare di fronte al Senato. Anche l’ex Procuratore generale degli Stati Uniti d'America Eric Holder ha annunciato l’intenzione di intraprendere le vie legali contro l’ipotesi reinserimento della cittadinanza, sfruttando i tweet del presidente Donald Trump contro l’immigrazione come prova. Lo Stato della California ha invece presentato un’istanza, affermando che una domanda sulla cittadinanza viola la Costituzione perché “impedirebbe in maniera diretta” la raccolta di informazioni accurate.