"Non giocare con il fuoco": da Budapest, il capo della diplomazia cinese, Wang Yi, ha messo in guardia dopo il 'via libera' da parte del Dipartimento di Stato Usa alla vendita di armamenti per 2,2 miliardi di dollari a Taipei (un pacchetto che comprende 108 carri armati M1A2T Abrams e 250 missili Stinger con relativi equipaggiamenti). La Cina infatti minaccia sanzioni. "Al fine di salvaguardare gli interessi nazionali", ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Geng Shuang, in una nota diffusa ai media cinesi a margine della conferenza stampa odierna, "la Cina imporrà sanzioni a società statunitensi coinvolte nella vendita di armi a Taiwan".
La questione delle forniture di armi all'isola, che Pechino considera una provincia ribelle destinata alla riunificazione con la Repubblica Popolare Cinese, aveva scatenato una reazione sdegnata dal parte del Ministero degli Esteri cinese poche ore dopo la diffusione della notizia, martedì scorso: Pechino aveva chiesto la "cancellazione immediata" dell'affare.
Un impatto solo simbolico?
L'approvazione della vendita di armi a Taiwan giunge in un momento di tensione tra Cina e Stati Uniti, impegnate a risolvere la disputa tariffaria in corso da un anno, e ora nuovamente in fase di tregua, dopo l'incontro a margine dello scorso G20 tra il presidente Usa, Donald Trump, e il presciente cinese, Xi Jinping. Rimane difficile, però, stimare un impatto dall'annuncio di Pechino di oggi, dal momento che i gruppi della Difesa Usa non possono fare accordi con Pechino dopo la strage di piazza Tiananmen del 1989.
Proprio in queste ore, è negli Stati Uniti la presidente dell'isola, Tsai Ing-wen, nel suo primo stop-over in territorio statunitense sulla via per i Caraibi, dove nei prossimi giorni sarà in visita in quattro dei 17 alleati diplomatici su cui Taipei può ancora contare (Saint Vincent and Greandines, Saint Lucia, Saint Kitts and Nevis e Haiti).
"La nostra democrazia non è arrivata facilmente", ha detto Tsai all'arrivo a New York, "e sta ora affrontando minacce e infiltrazioni da forze straniere", in un velato riferimento alla Cina. Pechino non fa mistero di puntare alla riunificazione, anche ricorrendo alla forza militare. E si oppone apertamente anche agli stop-over della presidente di Taiwan negli Usa in occasione dei suoi viaggi tra gli alleati diplomatici nei Caraibi (sulla via del ritorno farà scalo a Denver).
Un sostegno mai interrotto
Pur non essendo tecnicamente un alleato diplomatico, dopo il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese nel 1979, gli Stati Uniti non hanno mai interrotto il sostegno a Taiwan, anche con la vendita di armi, che irrita fortemente Pechino e per la quale non è stato stabilito un termine. In particolare, da quando alla Casa Bianca si è insediato Donald Trump, i rapporti tra Washington e Taipei sono aumentati, assieme alle vendite di armi: la presidente di Taiwan, in cerca di un secondo mandato alle presidenziali del 2020, ha espresso gratitudine e apprezzamento verso gli Stati Uniti, via Twitter, per l'approvazione dell'ultimo pacchetto di armamenti.
Pechino, invece, vede con sospetto Tsai, che non ha mai riconosciuto pubblicamente il principio dell'unica Cina, fondamentale per la Cina per regolare le relazioni con Taiwan, e negli ultimi anni ha sottratto quattro alleati diplomatici all'isola: Panama e Repubblica Domenicana in America centrale, e Burkina Faso e Sao Tomè and Principe in Africa, dove anche il Gambia è tornato a riconoscere formalmente Pechino all'inizio del 2016, lasciando solo lo eSwatini, ex Swaziland, come unico alleato diplomatico di Taipei nel continente).