Tutto o quasi è cominciato in Ungheria: la lotta contro il socialismo reale, l’apertura all’Occidente e alla sua democrazia. L’involuzione autoritaria ed illiberale. Persino il riavvicinamento a Mosca. In tutti questi casi, apparentemente in contraddizione gli uni con gli altri, Viktor Orban è stato al centro del palcoscenico. Non certo nel 1956, per motivi anagrafici, ma colui che oggi è il premier ungherese in cerca di una riconferma – alle elezioni di domenica 8 aprile (nel 28esimo anniversario delle prime elezioni tenute dopo la caduta del comunismo nel paese. Si voterà per rinnovare il Parlamento, composto da una camera unica da 199 seggi) – già nel 1989 era un protagonista. Aveva 26 anni, studiava ad Oxford a spese di George Soros e stava per fondare il Fidesz, allora chiamato il Partito della Gioventù, denominazione che sapeva di nuovo e dello spirito liberatorio di quei giorni. Età massima per essere iscritti: 35 anni, poi fuori, tra i vecchi da rottamare. Successo elettorale quasi ineluttabile. Da allora lui ha continuato ad esserne leader, anche se il tetto all’età massima è saltato da molto tempo. Dovesse vincere anche domenica, sarebbe il suo quarto mandato da primo ministro.
I sondaggi pare gli diano ragione: Fidesz è quotato tra il 30 ed il 40 percento. Addirittura ve ne sono che lo danno al 50 tra quanti si dicono certi di andare a votare. E poco importa che si sia trasformato in un partito di pantere grigie, e che il suo elettorato non sia più quello delle elite filoeuropee delle grandi città, ma quello dei ceti medio-bassi e dei contadini, che fanno una certa confusione tra identità e intolleranza, cristianesimo e nazionalismo.
Proprio questo gli ha permesso di continuare ad essere l’uomo forte del suo paese, nonostante una innegabile emorragia di consensi. Nel 2010 ottenne il 53 percento, nel 2014 il 45. Emorragia assolutamente sostenibile, visto il risultato finale, ma 600.000 voti in meno sono comunque un campanello d’allarme, e il logoramento affligge chi sta al potere. La domanda allora è: riuscirà Orban, l’uomo che ha litigato con Soros, portato l’Ungheria a riavvicinarsi al Cremlino una volta che è entrata nell’Unione Europea, indicato nei migranti il male assoluto, a resistere anche questa volta? Il miglior alleato del premier, finora, sono stati i suoi avversari: tanti, troppi, troppo divisi e quindi troppo deboli. Questi i sondaggi del momento: Jobbik (centrodestra) al 17 percento; Verdi al 5; Socialisti al 10; Coalizione Democratica al 10. Il resto disperso in una miriade di componenti con percentuali intorno all’1. Sulla carta, l’esito è scontato. Ma c’è un ma.
Alla fine di febbraio, infatti, è stato condotto un sperimento di ingegneria politica, in occasione delle elezioni comunali in una città chiamata Hódmezövásárhely. Piena provincia contadina, luogo ideale per fare da brodo di coltura per la base di Fidesz, ed in effetti i sondaggi ne davano vincente il candidato. Sondaggi affidabili: alla fine i voti ottenuti dal partito sono stati ancor più di quelli delle politiche del 2014.
Invece ha vinto il candidato sindaco delle opposizioni. Motivo: l’affluenza record alle urne, arrivata al 63 percento in una circoscrizione che, nel rispetto delle medie nazionali, non andava oltre il 53. Il risultato virtuoso di un accordo di tutte le opposizioni o quasi, che per una volta si sono impegnate per dare vita ad un cartello. E questo, per Orban, può essere davvero un segnale d’allarme.
Il sistema elettorale ungherese, infatti, somiglia a quello italiano. Se infatti il Rosatellum prevede che due terzi dei seggi siano assegnati con il criterio proporzionale, ed un terzo con il maggioritario, in Ungheria la proporzione è di 60 a 40. La differenza non è grande. E la mappa del consenso, dal 2014 ad oggi, pare che abbia subito una trasformazione, e qui la perdita di oltre 600.000 voti potrebbe essere in alcuni casi fatale per Fidesz. La distribuzione dei consensi, infatti, sarebbe tale per cui in caso di alta partecipazione il partito di governo potrebbe finire secondo in una serie di collegi uninominali, se alla fine le opposizioni riuscissero a trovare un accordo dell’ultimo momento. Inoltre la riduzione del consenso a livello proporzionale non può che trasformarsi in una erosione dei seggi parlamentari. Secondo i calcoli, rispetto alle elezioni di quattro anni fa sono 25 i seggi che il partito di governo dovrebbe perdere, in altri 40 il rischio è più limitato, ma comunque reale. Se si pensa che il parlamento ungherese ha 199 seggi, si capisce che Orban potrebbe anche uscire dalla consultazione come un’anatra zoppa.
Nel 1956 Orban non era ancora nato, ma l’Ungheria già andava controcorrente. Erano i tempi della grande nazionale di Puskas.