Diffusa come una sorta di certezza dell’era digitale, la convinzione che i nostri smartphone ascoltino ciò di cui parliamo è infondata e quasi certamente falsa. Eppure è una sensazione nota: quando si parla di qualcosa che potremmo voler acquistare e, all’improvviso, una pubblicità correlata ci viene mostrata su Facebook o Instagram, non possiamo far altro che pensare che in qualche modo il microfono del nostro smartphone ha trasmesso quell’informazione, trasformata poi in un contenuto sponsorizzato.
Ma che le cose non stiano così lo ha ricordato anche Tristan Harris, co-fondatore del Center for Human Technology ed ex responsabile dell’etica dei prodotti Google, in un suo intervento alla Milken Institute Global Conference di Los Angeles, durante il quale ha evidenziato il problema reale: con la quantità di dati di cui dispongono i fornitori di servizi online, non hanno affatto bisogno di ascoltare quello che diciamo.
“Lo so per certo, i dati forensi lo mostrano, e il Facebook VP della pubblicità lo conferma: i microfoni non vengono ascoltati. Ma allora come è possibile che siano in grado di conoscere il contenuto delle nostre conversazioni?”, ha detto Harris, riportato da Quartz. Come ha spiegato Harris, che da anni si occupa di questi temi, la risposta è che al loro interno i server di Google o Facebook funzionano come una piccola bambola Voodoo che replica la nostra identità digitale.
Click col mouse, soste nella lettura di un articolo o visualizzazione di un punto preciso di una pagina, fotografie che guardiamo, profili che cerchiamo. Tutti questi dati vanno ad alimentare l’identità del nostro alter-ego, la bambola Voodoo come dice Harris, che intrisa di informazioni sul nostro comportamento, “si comporta sempre di più come l’utente reale”. Una simulazione in pratica, basata su modelli statistici e sulla proiezione digitale dei nostri bisogni fisici. E in questo modo, tutto ciò che società come Google e Facebook devono fare è “simulare la conversazione che la bambola Voodoo sta avendo, così ne conosco il contenuto senza dover accedere al microfono”.
Perfezionato costantemente per anni, il meccanismo è lo stesso che da sempre costituisce il business principale di quelle realtà che offrono servizi apparentemente gratuiti, ma in realtà ampiamente ripagati dai dati che cediamo loro. Come nel 2012, quando si scoprì che le società di profilazione erano in grado di “dedurre” la gravidanza di una cliente sulla base di quali acquisti venivano registrati sulla sua carta di credito.
“Nutriti” di informazioni sui cibi che consumiamo o sul tipo di lozione per il corpo che acquistiamo, questi modelli vengono poi integrati per individuare delle ricorrenze statistiche: “La gran parte delle persone che fanno questa cosa in questo modo lo fanno per questa ragione”. Una magia che si consuma all’interno dei database di miliardi di informazioni che, volontariamente ancorché poco consapevolmente, cediamo in cambio dell’utilizzo di funzioni per le quali non è richiesto un pagamento in denaro.
Nel suo discorso, Tristan Harris fa riferimento in particolare all’analisi forense dei dati. A riconferma del fatto che le app che girano su miliardi di dispositivi ogni giorno difficilmente potrebbero estrarre informazioni accedendo al microfono senza che nessuno se ne accorga. Le analisi forensi consentono infatti di analizzare il contenuto delle informazioni che vengono trasmesse, oltre ad accertare quando e come il microfono venga attivato.
Grazie a questo tipo di controlli, svolti da giornalisti, centri di ricerca e organizzazioni per i diritti digitali di tutto il mondo, sarebbe pressoché impossibile che un’app acceda senza autorizzazione al microfono degli smartphone senza che qualcuno se ne accorga (per non parlare dell’incremento del consumo di batteria). Tutti elementi che dovrebbero convincere del fatto che non c’è un complotto per carpire in modo fraudolento informazioni che, in realtà, già forniamo alle aziende in modo spontaneo. Insomma, la buona notizia è che i colossi tecnologici non ci ascoltano. La brutta è che non ne hanno bisogno.