In Siria l’Isis ha perso quasi tutto il territorio che controllava, dopo aver abbandonato a ottobre Raqqa, considerata la capitale di Daesh nella nazione levantina, ed essersi trovata a difendere la sua ultima roccaforte nel paese, Albu Kamal, dagli assalti delle forze filogovernative siriane, sostenute dai raid aerei russi.
La missione che ha portato gli Stati Uniti in Siria, a sostegno delle milizie curde che hanno strappato Raqqa ai jihadisti, è quindi prossima al successo. Washington, però, non vuole ritirarsi dal paese mediorientale, considerato zona d'influenza di Mosca, che sulla costa siriana ha un'importante base militare, quella di Tartus.
A inizio settimana il segretario alla Difesa James Mattis ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno intenzione di proseguire l’intervento in Siria per perseguire l’obiettivo a lungo termine degli Stati Uniti, ossia prevenire il ritorno di “un’Isis 2.0”, e preparare il terreno al processo diplomatico necessario a evitare nuovi spargimenti di sangue tra gli attori che, dopo la sconfitta di Daesh, si ritroveranno a contendersi un Paese straziato da oltre sei anni di guerra civile. “Non ce ne andremo adesso che il processo di Ginevra sta iniziando”, ha dichiarato Mattis, riferendosi ai negoziati di pace promossi dalle Nazioni Unite.
Damasco chiede il ritiro immediato
Il ministero degli Esteri di Damasco ha reagito con un comunicato che accusa gli Stati Uniti di aver attaccato la Siria, conducendo operazioni militari senza il permesso del governo. “La presenza di forze statunitensi o qualsiasi altra presenza militare straniera in Siria senza il permesso del governo siriano costituisce un atto di aggressione e un attacco contro la sovranità della Repubblica araba siriana, così come una violazione della carta e dei principi delle Nazioni Unite”, ha dichiarato il ministero, chiedendo il ritiro immediato delle forze USA.
Anche la Russia, alleata del governo di Assad, si è detta contraria alla permanenza statunitense nel paese, con il ministro degli Esteri, Serghei Lavrov, che ha definito tale presenza "illegittima". “Sottolineiamo il fatto che la presenza nostra e degli iraniani in Siria è giustificata dall’invito del governo legittimo”, ha detto Lavrov in una conferenza stampa a Mosca, "notiamo invece che la presenza della coalizione formata dagli Stati Uniti è illegittima”. Secondo quanto dichiarato all’agenzia governativa TASS, Lavrov ritiene che l’intervento degli Stati Uniti in Siria debba considerarsi concluso con la sconfitta dell’Isis, citando quanto gli avrebbe riferito il suo omologo statunitense Rex Tillerson.
Il governo russo ha addirittura accusato gli Stati Uniti di aver offerto copertura ai miliziani Isis, ostacolando i tentativi delle truppe lealiste di espugnare Albu Kamal, l’ultimo centro di rilievo controllato dal sedicente Stato islamico in Siria. L'accusa è poi stata smentita da un team di fact-checker che hanno costretto il ministero della Difesa russo a ritrattare alcune foto annunciate come incriminanti.
A fianco di Washington solo i curdi
I maggiori sostenitori della permanenza Usa in Siria sono i curdi, che hanno beneficiato del sostegno anche militare alle milizie raccolte sotto l'ombrello delle Forze democratiche siriane, sostegno grazie al quale hanno finito per controllare quasi un quarto del Paese. Il principale partito curdo siriano, tramite un messaggio di uno dei suoi leader, ha dichiarato di favorire la continuazione dell’intervento USA in Siria. “Senza riuscire a ottenere una soluzione politica alla crisi siriana, e con la continuazione degli interventi di Turchia e Iran, e la presenza perdurante di gruppi associati a al Qaeda in Siria, è meglio che l'operazione della coalizione prosegua", ha dichiarato alla Reuters Shahoz Hasan, presidente del partito. I curdi sperano in un cambiamento in senso federale della costituzione, per legittimare la loro presenza territoriale.
Anche il presidente turco Erdogan si è lamentato dell’intervento statunitense, accusando Washington di sostenere i combattenti curdi e complicare la situazione in Siria. Una questione che Erdogan approfondirà il prossimo 22 novembre a Sochi, dove incontrerà il presidente russo Vladimir Putin.