Dopo Aleppo, la Ghouta orientale e Douma, sulla road map della riconquista della Siria da parte del regime di Damasco è ora la volta di Idlib, ultima tessera del puzzle che la Russia vuole riconsegnare al presidente siriano Bashar El Assad.
Difficile che l'agenda del presidente russo Vladimir Putin e del ministro degli Esteri Sergej Lavrov possa ammettere cambi di programma. Sottraendo ai ribelli di Hayat Tahrir al Sham, costola di Al Qaeda costituita da 10 mila miliziani nata dalla fusione di diverse sigle islamiste, il 60% del territorio della provincia nel nord ovest della Siria, Mosca riuscirà nell'impresa di restituire al regime siriano buona parte di quello che era il Paese ereditato dal padre Hafez: Bashar, che solo qualche anno fa si era ridotto a fare il sindaco di (una parte) di Damasco, grazie all'intervento di Putin tornerà a controllare quasi tutto il territorio nazionale.
La conquista di Idlib infatti, lascerebbe fuori dal controllo di Assad, vale a dire dei russi, solo le zone curde del nord est governate dal Pyd-Ypg con il patrocinio degli Usa e altre due province del centro e sud est, terra di nessuno e rifugio di jihadisti di risme diverse, tra cui i rimasugli dello Stato Islamico in fuga. La battaglia di Idlib va intesa come una tappa del piano di pacificazione della Siria così come stabilito dal trittico Mosca - Ankara - Teheran negli incontri di Astana, Sochi e Istanbul degli ultimi due anni. È però soprattutto la Russia a premere per far partire le operazioni, con l'Iran leggermente defilato, mentre la Turchia sta facendo di tutto per evitare l'opzione militare. "Non abbiamo mai nascosto le nostre mire su Idlib", ha detto Putin al ministro della Difesa (capo dell'esercito fino a 3 mesi fa) di Ankara, Hulusi Akar e al capo dei servizi segreti Hakan Fidan in missione a Mosca nei giorni scorsi per un disperato tentativo di 'moral suasion'.
La Turchia teme un nuovo esodo
A spaventare Ankara sono le stime dell'agenzia ONU per i rifugiati (Unhcr), secondo cui a rischio fuga sarebbero due milioni e mezzo di civili che potrebbero trovarsi senza vie di fuga, con l'unica possibilità costituita da un esodo verso il confine turco, a condizione che quest'ultimo venga almeno momentaneamente riaperto. Sul possibile nuovo disastro umanitario circolano in verità cifre in contraddizione, con l'intelligence turca che parla di 250 mila a rischio fuga e organizzazioni umanitarie secondo cui potrebbero arrivare a un milione.
La prospettiva di nuovo esodo verso la Turchia, al di là dei numeri, toglie però il sonno al presidente Recep Tayyip Erdogan, che nella recente campagna elettorale ha promesso più volte che la Turchia avrebbe riportato i siriani in Siria. Del resto, i suoi avversari non hanno mai perso occasione per rinfacciargli i 40 miliardi di dollari spesi per i rifugiati "mentre la moneta crolla e i turchi non hanno lavoro". "Abbiamo il dovere di evitare un'altra Aleppo", hanno ripetuto i ministri della Difesa e degli Esteri, consapevoli che una tragedia umanitaria come quella seguita alla riconquista della seconda città siriana sarebbe un disastro per il presidente turco e per un Paese con la valuta in caduta libera e l'inflazione fuori controllo.
Il secondo esercito della NATO dopo aver schierato nei mesi scorsi decine di blindati nella provincia di Idlib e aver allestito check point d'accordo con Russia e Iran, ha aumentato il proprio contingente schierato al confine negli ultimi giorni. Il restante 40% della provincia di Idlib è in mano agli uomini del Fronte di liberazione nazionale, un gruppo sostenuto dalla Turchia su cui Ankara ora punta per mantenere il cessate il fuoco. Tentativi disperati e probabilmente insufficienti a fermare il piano di Mosca per la Siria, così come inutile pare al momento l'intervento dall'inviato ONU Staffan de Mistura, che ha già chiesto l'apertura di corridoi umanitari per consentire la fuoriuscita dei civili. Un intervento che Ankara non ha apprezzato, con la dura risposta del ministro della Difesa Akar che ha ricordato al diplomatico italo-svedese che il suo ruolo e' quello di "evitare tragedie umanitarie".
La situazione è incandescente e ha molti attori in gioco; le ripetute esplosioni provenienti dalla base militare di Mezzeh, vicino Damasco, nella notte di sabato, hanno fatto pensare subito a un attacco missilistico israeliano sulla base, a cui aveva risposto la difesa anti-aerea. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, ci sono state due vittime. Damasco nel passato ha accusato a più riprese Israele di aver colpito la base, ma il governo dello Stato ebraico non ha mai confermato. Più tardi i media siriani hanno, invece, fatto sapere che le detonazioni sono state causate dall'esplosione in un deposito di munizioni causato da un problema elettrico. Israele - che non ha commentato la notizia - teme che la Siria diventi una 'testa di ponte' per Teheran e negli ultimi mesi ha intensificato i suoi attacchi contro le posizioni militari del regime e le forze iraniane presenti in Siria.
Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno già detto di essere pronti a rispondere militarmente, in caso Assad usi armi chimiche contro Idlib. Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha avvertito che Washington vedrà l'offensiva militare come un'escalation del conflitto. Nei giorni scorsi, Mosca aveva avvertito che i ribelli stavano preparando un attacco chimico per scaricarne le responsabilità su Assad e provocare quindi un intervento occidentale.