Non è poi così sicuro che quel che fa bene all’America fa bene anche al suo business. O almeno questo è il dubbio che da qualche tempo attanaglia i vertici di Starbucks, la più importante catena di caffetterie degli Stati Uniti e del mondo. Da quando, per l’esattezza, l’uomo che l’ha resa grande, Howard Schultz, ha lasciato il gruppo lasciando intendere che tra due anni sarà lì a contendere la Casa Bianca a Donald Trump.
Quel debole dei miliardari per la Casa Bianca
Non è il primo uomo di successo nel business a mettere gli occhi sulla presidenza degli Stati Uniti. Oltre allo stesso Trump si è fatto avanti negli ultimi due anni anche Mark Zuckerberg (ma i problemi emersi con Facebook negli ultimi mesi potrebbero aver messo certe aspirazioni in archivio). Gli annali ricordano anche Ross Perot, il miliardario che nel 1992 si candidò da indipendente (e contribuì così alla vittoria di Bill Clinton). Per Schultz, però, la cosa è leggermente diversa: lui di prepara a correre contro Trump ancor prima che per i democratici, e questo fa sorgere alcuni dubbi tra i suoi ex colleghi di Starbucks.
Più lavoro, più punti vendita
La sua primissima presa di posizione politica risale al 2011, quando esortò i più importanti capitani d’industria nazionali a non finanziare più i partiti fino a quando non si sarebbero messi in testa di affrontare sul serio il problema del deficit. Erano i tempi di Obama, e lui era molto arrabbiato con i repubblicani che avevano bloccato il bilancio federale. In contemporanea lanciava un progetto – sociale – per la creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro ed un altro – aziendale – per l’apertura di centinaia di punti vendita in America e nel mondo. Le due cose, evidentemente, andavano di pari passo.
“Parlate di problemi razziali”
Da allora Schultz nono ha perso occasione per porsi come campione del politicamente corretto, anche a costo di andare incontro al fallimento. Come quando nel 2015 spinse i suoi dipendenti ad avviare conversazioni con i clienti per sensibilizzarli ai problemi dell’integrazione razziale. Ma la filosofia è rimasta coerentemente la stessa: le aziende devono servire contemporaneamente i loro azionisti e una serie di interessi più ampi, anche civili e sociali.
In fondo è sempre la stessa idea: quel che fa bene al business, fa bene alla società. E viceversa.
Purtroppo a Starbucks (un colosso da 78 miliardi di dollari) hanno preso a preoccuparsi. Guardando la cartina degli Stati Uniti.
Acque inesplorate
Starbucks, che prende il nome da uno degli uomini del Capitano Achab di Moby Dick, è abituata a studiare le rotte, e si è accorta che i propri punti vendita hanno saturato l’America progressista delle due coste, e possono sono espandersi nel Midwest e nel Sud. Proprio dove Trump, il nemico prescelto da Schultz, è più forte e continuerà ad esserlo (personalmente o per interposta persona) alle presidenziali del 2020.
Certo, avere un ex di quel peso nell’Ufficio Ovale potrebbe significare avere le spalle coperte nel difficile ed immenso mercato della Cina; a casa però i problemi potrebbero farsi insormontabili, al momento di tentare un’eventuale scalata nella Valle del Missisippi.
Ecco quindi che la garanzia di Schultz potrebbe trasformarsi un’obbligazione. I tecnici e gli analisti sono al lavoro per valutare i pro e i contro. Un filosofo una volta scrisse che in America “la percezione esatta dell’interesse personale” si realizzava nella coscienza dell’individuo che i propri interessi fossero garantiti nel più ampio quadro del bene comune. Si trattava di Alexis de Tocqueville, ma la sua Democrazia in America non aveva ancora conosciuto Donald Trump.