Quando Tarana Burke ha visto l’hashtag #MeToo diventare virale è rimasta a bocca aperta ed è andata nel panico. Le due parole erano state scelte dall’attrice Alyssa Milano per invitare, sull’onda del caso Weinstein, tutte le donne che avevano subìto molestie da parte degli uomini a denunciarlo su Twitter. In poche ore l’hashtag è diventato virale e con oltre 1,7 milioni di condivisioni, il topic si è trasformato in una sorta di movimento. Un risultato da celebrare, ma non per Tarana Burke che nel 2006 aveva lanciato la sua campagna personale per aiutare tutte le donne – e in particolare quelle di colore – che come lei erano state vittima di stupro o molestie sessuali a reagire, farsi forza a vicenda e denunciare. Ironia della sorte, per la sua campagna, Tarana, 44 anni attivista nata e cresciuta nel Bronx, aveva scelto uno slogan semplice e inclusivo: “Me Too”.
“L’hashatag ha rovinato il mio lavoro”
“La tendenza sta crescendo e ora spazzerà via completamente tutto il lavoro che ho portato avanti da oltre dieci anni”, ha raccontato al Washington Post. Non solo: la donna ha quasi terminato la realizzazione di un documentario che dovrebbe uscire il prossimo anno, ma il timore è che ormai il nome della sua campagna sia indissolubilmente legato al produttore-molestatore seriale Henry Weinstein e all’hashtag di Alyssa Milano. Come se bastasse, ogni giorno Tarana si scontra con la sua dura realtà: quelle due parole che aveva in mente stanno davvero generando empatia e solidarietà tra le donne di tutto il mondo, come lei stessa aveva previsto 10 anni fa. Ma la battaglia che si sta combattendo, seppur molto simile, non è la sua.
Burke non resta a guardare
“Devo fare qualcosa”, si è detta qualche giorno fa. Per “evitare che il mio lavoro venga cancellato e perché se posso sostenere le persone, devo farlo”. “Il mio cuore si è gonfiato quando ho visto così tante donne aderire all’iniziativa. Si tratta di rafforzare il potere attraverso l’empatia”. Con l’aiuto del Black Twitter – una corrente del social network che raccoglie temi di interesse per la comunità afroamericana -, Burke ha iniziato a far conoscere il suo movimento oltre i canali ristretti in cui operava. Alla fine, anche Alyssa Milano ha parlato del movimento di Tarana ai suoi follower, con tanto di link. Se c’è una cosa di cui è consapevole Burke, però, è che “ci vorrà più di un hashtag per affrontare davvero il problema”. “Ci sono di mezzo le vite delle persone, si tratta di cose molto intime”.
“Non ero pronta”
Da oltre 25 anni Tarana organizza eventi in tutto il Paese per sensibilizzare le persone sui e difendere i diritti delle comunità marginalizzate. Una volta in Alabama, una ragazza, Heaven, raccontò in privato a Burke di essere una sopravvissuta. Aveva solo 13 anni. “Non ero pronta. E quando lei si aprì, io la rifiutai, mandandola da qualcun’altra”. Non frequentò più il movimento e Tarana si chiede ancora oggi cosa ne è stato di lei. “Perché non le hai semplicemente detto “anche io”?”, continua a domandarsi. La vicenda fu il primo tassello di un puzzle che ha spinto la donna a fondare il movimento “Me Too”. Il primo passo fu quello di aprire un profilo MySpace che ebbe buona visibilità. Poi una donna, una stilista, donò a Tarana 1000 magliette con su scritto “Me Too”.
“Non si può essere d’ispirazione senza un lavoro dietro”
Oggi la fondatrice del movimento teme che l’hashtag della Milano abbia fatto diventare notizia e poi cadere nell’oblio il lavoro di anni legato a questioni di fondamentale importanza. Perché va bene ispirare le persone, ma “senza un lavoro dietro” è tutto inutile. E poi ci sono loro, le donne vittime di stupro: “sono pronte ad affrontare quello che viene dopo?”. Tarana non ha dubbi: “Hanno bisogno di supporto per fare o conti con quello che è successo e liberarsi da qualsiasi peso o senso di colpa”.