“I curdi non vogliono più uno Stato-nazione”. Questa è la considerazione che Fabrizio Eva, geografo e docente a contratto all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ripete più volte durante l’intervista ad Agi. La questione turco-siriana, con al centro gli eventi che hanno caratterizzato la zona del Rojava, a maggioranza curda, non riguarda più solo i confini territoriali ma anche le pratiche sociali, amministrative e politiche messe in piedi dai curdi. “Quella di uno Stato-nazione era una richiesta fatta dopo la prima guerra mondiale. Nel 1920 il trattato di Sevres lo aveva riconosciuto ma poi, nel 1923, con il trattato di Losanna sia lo stato armeno che quello curdo scomparvero per gli interessi delle potenze mondiali”.
C’è un problema di narrazione quindi?
I curdi del Rojava oggi vengono rappresentati e raccontati con una visione che guarda al passato e non al futuro, ovvero ancora all’interno di un quadro concettuale dello Stato-nazione che sembra essere l’unico che l’Occidente riesca a considerare. La pratica socio-economica e di organizzazione politica che hanno messo in piedi i curdi in quel territorio è esattamente all’opposto rispetto a tutti i sistemi autoritari che vanno per la maggiore nel mondo e nella geopolitica internazionale. Quello a cui aspirano dal 2011, sotto proposta del leader Abdullah Öcalan, oggi unico prigioniero dell’isola carcere di İmralı, nel Bosforo, è il confederalismo democratico. Una proposta politica, fatta al Pkk e a tutti i curdi, che non intende toccare i confini esistenti. Una proposta democratica, messa già in pratica in una situazione di conflitto e che non ha eguali nel Medio Oriente.
Di quale territorio stiamo parlando quando diciamo Rojava?
Sono attualmente 4 le zone in cui possiamo collocare i curdi e sono diverse dal punto di vita istituzionale, politico ed economico. Il Rojava, “occidente” in curdo, corrisponde al nord-est della Siria. Qui, grazie alla guerra contro Daesh, i curdi che vi abitano sono attualmente armati (milizie Ypg, ndr). Liberando il territorio a est dell’Eufrate più un paio di zone a ovest del fume, intorno alla città di Manbij, queste milizie hanno messo in agitazione la Turchia che ha prontamente reagito.
Un altro territorio popolato dai curdi si trova nel sud-est della Turchia. Qui, da Atatürk in poi, i curdi vivono in una condizione di rivolta e continua repressione. E in questa zona si è formato il gruppo armato PKK che dopo decenni di lotta armata, ha deciso di promuovere, in una forma leggermente diversa, il confederalismo democratico. Ci sono poi i curdi che vivono in Iraq che, dopo la caduta di Saddam Hussein e il pasticcio istituzionale seguente, si stanno organizzando in maniera autonoma sotto protezione americana. Non vogliono il confederalismo democratico perché sono contenti della situazione attuale e non aspirano più, dopo il fallimento di un referendum plebiscitario non riconosciuto dagli stati confinanti, Si accontentano per ora di un Kurdistan iracheno. Infine ci sono i curdi iraniani che sono fortemente repressi dal governo di Teheran che non possono uscire da quei confini e che, per questo, hanno messo in atto una guerriglia che dura da diverso tempo.
Qual è la proposta di Abdullah Öcalan?
Öcalan era già leader nel 1978. Allora però si era ancora all’interno del quadro internazionale della guerra fredda e i movimenti di indipendenza e di liberazione avevano quasi tutti come riferimento ideale il marxismo-leninismo e l’appoggio organizzativo dei paesi socialisti e dell’Unione sovietica. Questo riferimento oggi non c’è più e Öcalan, in prigione, ha approfondito i testi del filosofo anarchico ed ecologista Murray Bookchin la cui proposta teorica per l’anarchismo contemporaneo è il municipalismo e l’ecologismo libertario. Si è convinto che questa possa essere una strada per i curdi. Pkk e Ypg, milizia armate che stanno difendendo il Rojava, e che hanno da tempo rapporti solidali di autodifesa, hanno aderito tutte e due a questa proposta. Il Pkk, ovviamente, fatica a metterlo in pratica perché non controlla un territorio e combatte nelle zone del sud-est della Turchia, sotto forte repressione. Il Rojava, invece, ha potuto mettere in pratica questa proposta proprio perché, per paradosso, è iniziata la crisi siriana. Se non fosse iniziata, infatti, questa proposta politica, molto forte, estrema anche per noi occidentali, non avrebbe potuto realizzarsi.
Cos’è e come funziona il confederalismo democratico?
Il Rojava è organizzato con istituzioni democratiche con degli organismi a cascata: regionali, cantonali, municipali e poi anche quelli di quartiere. La struttura è essenzialmente molto simile a quella che conosciamo. La differenza è che mentre noi eleggiamo dei rappresentanti che, per un certo periodo di tempo, prendono delle decisioni legislative a cascata, ovvero dal parlamento verso il basso, loro partono al contrario, eleggendo con sistema assembleare i rappresentanti dei quartieri che durano al massimo sei mesi in carica. Sempre un maschio e una femmina, per obbligo. È possibile una rielezione ma l’indicazione è quella che una persona non rimanga troppo nella stessa posizione per il rischio che assuma troppo potere. Le proposte normative che vengono promosse per tutto il territorio sono state proposte e sperimentate al livello più basso di questa piramide e, se non funzionanti, vengono cambiate. Man mano che si va verso l’alto il potere decisionale obbligatorio verso le strutture sottoposte diminuisce. Ma è dal basso che si diffondono le buone pratiche che poi vengono normate. Questa è la cosa difficile da capire per noi che lo definiamo spesso come utopico e non funzionante. I curdi del Rojava inoltre dicono un’altra cosa: non bisogna aspettare la fine della guerra per praticare questo confederalismo. Si realizza mentre si combatte. Una novità non semplice da raccontare soprattutto in un territorio dove la guerra non finisce mai. Ma c’è un’altra cosa da dire.
Prego
Tutti questi organismi, come ho detto, sono misti. Ad esempio un sindaco maschio e uno femmina. Man mano che si sale la percentuale di donne deve essere almeno del 40%. Non si può scendere sotto quota soglia. Parallelamente all’organismo ultimo, quella sorta di Parlamento che sulla base delle proposte dal basso decide una cosa e la propone affinché venga seguita da tutti, esiste un altro organismo, esclusivamente femminile, che non approva le leggi ma ha potere di veto sulle decisioni del Parlamento. I punti di riferimento ideologici di questo confederalismo, infatti, sono due: ecologismo e femminismo.
Torniamo al territorio. Parliamo dei rimpatri dei curdi in Siria fatti da i turchi
Si stima che siano circa 4 milioni di profughi in Turchia. Quelli ufficiali dicono 3 milioni e mezzo ma secondo i curdi stessi sono di più. La grande maggioranza di questi è gente che viene da Aleppo, Hama, Homs, dalle zone periferiche di Damasco. Con i rimpatri i siriani vengono rimandati indietro senza criterio, un po’ come mandare, per capirci, 200 mila siciliani in Valle d’Aosta. Certo che formalmente i curdi siriani vengono rimandati in Siria ma in una zona che non è la loro casa. I profughi siriani che attualmente vivono in Turchia e in Libano, non appena dovesse calmarsi la situazione e possano immaginare di non dover temere la ritorsione del regime di Assad, sono pronti a tornare da dove sono venuti, a casa. Per i turchi questo rimpatrio disordinato è invece uno strumento di guerra per diluire la presenza curda nel loro territorio.
Un'operazione che metterebbe in difficoltà il Rojava
La posizione ufficiale dei curdi è abbastanza chiara: in questo momento chi vuole venire nei territori del Rojava per vivere secondo le regole del confederalismo democratico può farlo, data anche l’assenza di limiti e confini da difendere. Chi arriva però deve farlo con la volontà di vivere questo tipo di esperienza. Non importa il numero ma l’adesione a quest’esperienza, ripeto, forte ed estrema. Poi dipende certo da quanti ne arrivano. Difficile immaginare una situazione di questo tipo con l’invio di 200-300 mila persone insieme. Quello è un atto di guerra.
Parliamo di safe-zone e di Stato-cuscinetto, termini che ricorrono quando si parla del conflitto siriano
Ecco, vede, non utilizziamo il termine “Stato”. La Turchia non vuole che si realizzi uno Stato-cuscinetto. Per questo la chiama safe-zone o safe-area. Ed è una zona che i turchi pattugliano anche attraverso le milizie appartenenti al free syrian army, quelle che inizialmente avevano disertato nel 2011 dalle forze di Assad. Una zona che, dopo il ritiro delle Ypg sta vedendo la crescita dei gruppi jihadisti. Questi ultimi sono già stati utilizzati come supporto dai turchi per entrare nel cantone di Afrin, tra gennaio e aprile 2018, quando sono entrati, ricordiamolo, per la seconda volta in Siria (la prima volta è stata nel 2016). Un intervento diretto, una sorta di prova generale di quello che è poi accaduto recentemente. I turchi stanno facendo in parte la stessa cosa ora con la differenza che per il momento l’intervento diretto delle milizie di Ankara è ridotto perché si limitano soprattutto a bombardare dall’alto e a pattugliare con i russi in alcune zone.
Le cellule jihadiste quindi ora trovano nuova linfa
All’interno delle milizie utilizzate dalla Turchia ci sono dei compagni d’armi, in qualche caso si conoscono. I curdi negli ultimi anni avevano tenuto sotto controllo, in campi, 70 mila tra combattenti, ex combattenti e mogli, figli dei combattenti. Quest’ultime, ad esempio, separate dagli uomini, continuano a crescere i loro figli con l’idea del “risorgeremo” e “li spazzeremo via”. Il controllo delle prigioni ormai si sta allentando e un certo numero ha cominciato a scappare.
Il ruolo di Usa e Russia
I turchi sono entrati nella parte centrale di questa safe zone con un accordo che hanno preso prima con Trump e poi con Putin. Trump aveva elogiato l’accordo sostenendo che i turchi avrebbero fatto un pattugliamento con i soldati americani. Poi invece ha ritirato questi ultimi. A quel punto sono entrati i russi che, tramite l’incontro tra Putin e Erdogan a Sochi, hanno trattato con Ankara. I soldati di Mosca hanno preso alcune delle posizioni americane e sono proprio entrati nelle loro basi in qualche caso. Fanno anche qualche pattugliamento insieme, russi e turchi, in questa safe zone. Sempre dopo che le milizie curde dello Ypg si sono ritirate a 32 chilometri dal confine. Per ora la situazione è ferma.
La prossima mossa del presidente Erdoğan?
Come abbiamo visto la mossa Erdoğan l’ha già fatta. Il nazionalismo, anche in Turchia, funziona sempre. È risalito nei sondaggi e tutto quello che accade nel Rojava nella safe zone è una grande arma di distrazione di massa. In Turchia non si parla quasi più delle questioni economiche. C’è una caccia alle streghe continua: due docenti che in televisione hanno usato la parola guerra durante un’intervista sono stati denunciati per favoreggiamento del terrorismo. La situazione in Turchia, non da oggi, è questa. Anche sulla rete ci sono casi di bullismo e manipolazione continua contro chi racconta, come i giornalisti, la realtà delle cose. Erdogan ha ripreso la popolarità con un’operazione molto semplice. Riassumendo: mando via i profughi, difendo l’orgoglio nazionale, combatto il terrorismo ed economicamente tutto questo è un vantaggio perché non la Turchia non spende più per gente che non dipende da noi e perché l’Europa ci dà molto di meno di quello che dovrebbe.
Cambierà qualcosa dal punto di vista geopolitico? I confini resteranno gli stessi?
Purtroppo credo che non cambierà nulla. Sono sempre massimo 10 gli stati della comunità internazionale a occuparsi della vicenda. I soliti 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, in questo caso 4 perché la Cina si tiene fuori perché non ha interessi diretti, più alcuni stati che stanno lì intorno. Nessuno ha intenzione di cambiare lo status quo a meno che non succeda qualcosa di grave. Questa invasione turca nel nord della Siria non è considerata un fatto grave.
Perché?
Bisogna tener conto del fatto che la Turchia è membro della Nato. Ha fatto un accordo con gli Usa che ha dato il via libera all’operazione. Poi ha fatto un accordo con Putin che è un avversario da cui la Nato dovrebbe difendersi. La lotta contro Daesh da un punto di vista del cosiddetto diritto internazionale non giustifica la presenza e l’intervento di forze militari di Paesi altri all’interno di uno stato sovrano. E in Siria ci sono anche truppe americane e francesi. Non basta dire che Assad è delegittimato per compiere azioni di questo genere. La delegittimazione deve essere riconosciuta da una dichiarazione dell’Onu che non può avvenire perché la Russia metterebbe il veto.
Vince la regola del più forte.
Esattamente. La Turchia ha capito che in questo gioco, o confronto, è sufficientemente forte e protetta per permettersi di fare ciò che vuole. Quello che fa non mette in discussione la struttura geopolitica esistente. Sono i curdi del Rojava che teoricamente la metterebbero in discussione. Non dal punto di vista dei confini, che non verrebbero toccati, ma dal punto di vista della proposta politica di cui abbiamo parlato e che per molti, ripeto, è difficile da capire. E per molti Stati, non solo in Medio Oriente, che la percepiscono giustamente come un pericolo.
I curdi sono contro Assad?
Il discorso è più complesso. Alla fine del 2018 avevano già trattato con Assad durante la comune guerra contro Daesh. I curdi del Rojava sostengono di non avere preclusioni contro nessun governo di Damasco che riconosca loro l’autonomia. Questo significa non ritoccare i confini ma garantire l’autonomia socio-politica nelle zone a maggioranza curda e non in altre come Raqqa che pure le milizie dello Ypg avevano conquistato. I curdi erano e sono disposti a ritornare nelle loro zone cedendo mano e mano, pacificamente, il controllo armato del territorio al governo siriano. Qualunque esso sia. Basta che garantisca loro la permanenza come siriani e la possibilità di auto-organizzarsi. Assad, con l’aiuto della Russia, era ormai talmente forte da essersi permesso di tirare per le lunghe e non accettare una proposta conveniente. Questo intervento fisico della Turchia, però, mette in difficoltà il Rojava e costringe i curdi ad avere una posizione di debolezza nei confronti di Assad. Questo è il motivo per cui non si è mosso. Anche a lui questa situazione conviene.
Per l'intervista si ringrazia la Società geografica italiana