"Chi gioca col fuoco perisce nelle fiamme" è stato il monito delle autorità cinesi ai manifestanti di Hong Kong. Quella che era nata due mesi fa come una protesta per una riforma dell'estradizione, poi ritirata, che avrebbe consentito a Pechino di perseguitare i dissidenti nell'isola si è trasformata in una contestazione più generale dell'autorità del Dragone sull'ex colonia inglese.
I dimostranti pro-democrazia hanno raccolto la sfida e, in un'inedita conferenza stampa, tre rappresentanti del movimento, a volto coperto, hanno respinto l'appello a lasciare la piazza e ribadito la condanna dell'amministrazione locale, sostenuta da Pechino. "Chiediamo al governo di ridare il potere alla gente e ascoltare le richieste dei cittadini di Hong Kong", hanno detto i tre giovani, una donna e due uomini, leggendo le loro dichiarazioni in cantonese e in inglese.
Nella stessa giornata Yang Guang, portavoce dell'Ufficio per gli Affari di Hong Kong e Macao presso il Consiglio di Stato, massima autorità cinese in materia, ha avuto un raro incontro con la stampa nel quale ha ribadito il sostegno alla governatrice Carrie Lam e ha ricordato ai manifestanti la "potenza immensa" dell'ex Celeste Impero. "Chi gioca col fuoco perisce nelle fiamme", per l'appunto.
Il dilemma di Pechino
La domanda è come tale potenza verrà impiegata. Un approccio morbido potrebbe avere un effetto domino, convincendo anche i dissidenti interni che sia possibile rivoltarsi contro l'autorità centrale. Una risposta militare potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Con un piede in Oriente e uno in Occidente, Hong Kong attrae un'enorme quantità di investimenti occidentali ed è sede delle filiali asiatiche delle principali banche d'affari del mondo. Per Europa e Stati Uniti non sarebbe quindi troppo difficile rispondere.
"Non è chiaro se abbiano deciso un qualsiasi approccio", ha dichiarato a Bloomberg Ivan Choy, docente di Scienze Politiche presso l'Università Cinese di Hong Kong, secondo il quale il presidente Xi Jinping potrebbe cercare di prendere tempo formando una sorta di consiglio dei saggi con i notabili dell'isola per chieder loro consigli. Una cosa è sicura: le autorità cinesi, spiega Choy, "vogliono prima il ripristino dell'ordine sociale e solo dopo potrebbero prendere in considerazione qualche aggiustamento delle politiche".
Il cerino, pertanto, rimane al momento in mano a Carrie Lam, che non ha alcuna intenzione di dimettersi e ha accusato i manifestanti di voler "distruggere Hong Kong". Lam ha chiesto alla polizia di tenere regolari incontri con la stampa per descrivere le conseguenze delle proteste, che nei giorni scorsi sono sfociate in episodi di violenza nei confronti dei lavoratori che non hanno partecipato agli scioperi, ma è molto difficile che ciò basti a spostare l'opinione pubblica, che per il momento è saldamente al fianco dei manifestanti.
Una delle tesi che circolano a Pechino, spiega a Bloomberg Wang Huiyao, consulente del governo cinese, è che il deterioramento dell'economia comportato da un protrarsi delle proteste possa essere sufficiente a far cambiare il vento. Lo sciopero di lunedì, ad esempio, ha paralizzato la città gettando nel caos anche il traffico aereo, con centinaia di voli cancellati.
Steve Tsang, direttore dell'Istituto Cinese presso la Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra, è molto scettico su questo punto: "Per la maggior parte dei manifestanti, l'idea è che questa potrebbe essere l'ultima volta che possono lottare, l'ultima volta che possono fare questo. È la difesa estrema: così la sta vedendo molta gente a Hong Kong".
Le chance di un intervento militare
In concreto, però, quante possibilità ci sono che i dimostranti si trovino di fronte un avversario più duro della polizia antisommossa con cui continuano a combattere a colpi di sassi e bastoni? Secondo Tsang, la Cina impiegherà l'esercito solo se i manifestanti attaccassero gli uffici del governo cinese. Un qualsiasi ricorso alle forze armate o alla Polizia Armata del Popolo innescherebbe inevitabilmente una rappresaglia economica occidentale nei confronti di quello che è uno degli hub finanziari più importanti del mondo. Gli Stati Uniti, ad esempio, potrebbero revocare lo status commerciale speciale che riconoscono a Hong Kong e che per ora tiene fuori l'ex colonia dalla guerra commerciale tra le due superpotenze.
Eppure le accuse rivolte oggi da Yang Guang agli Usa, che fomenterebbero il dissenso con la loro solidarietà alla protesta, potrebbero fungere da presupposto per un intervento più risoluto. "Pechino potrebbe stare per perdere la pazienza", afferma Bonnie Glaser, consulente per l'Asia del Center for Strategic and International Studies, "i cinesi potrebbero premere su Carrie Lam perché arresti un gran numero di manifestanti. E sicuramente stanno discutendo se inviare o meno le truppe dell'Esercito Popolare di Liberazione per ripristinare l'ordine".
Le conseguenze internazionali di un'azione di forza potrebbero però essere pesanti e imprevedibili. "C'è del pragmatismo nel relativo basso profilo di Pechino", sottolinea Tim Summers, consulente di Chatham House, "ciò non solo per l'attenzione della comunità internazionale ma perché fare qualcosa di più duro potrebbe davvero peggiorare la situazione".