Il 5 gennaio 1968, esattamente mezzo secolo fa, ebbe inizio uno degli esperimenti più arditi e disperati di ingegneria politica e sociale di tutto il Ventesimo Secolo: la costruzione di un Socialismo dal Volto Umano. Finì male, nel giro di pochi mesi, ma il suo autore ebbe, dopo anni ed anni di esilio interno e rigidissima damnatio memoriae, la gioia di tornare nell'abbraccio della folla di Piazza San Venceslao, a pochi metri dal luogo dove il giovane Jan Palach si era tolto la vita per protestare contro la soppressione della libertà.
Protagonista di questa stagione, destinata ad influenzare i rapporti tra Est ed Ovest e la stessa politica italiana, Alexander Dubcek, leader del partito comunista slovacco e divenuto, quella mattina di gennaio, segretario del partito comunista della Cecoslovacchia. Con lui a capo, la direzione del partito vara una serie di riforme:
- abolizione della censura,
- democratizzazione della vita politica,
- maggiori margini di manovra ai responsabili delle aziende statali.
In una parola, un socialismo pronto ad archiviare sia le letali asperità dello stalinismo sovietico, quanto la stagnazione ideologica ed economica dell'era brezhneviana, all'epoca al massimo della sua potenza.
Destalinizzazione e libertà
Il processo di destalinizzazione che si era sviluppato in Cecoslovacchia dall'inizio degli anni Sessanta era stato accompagnato fin da subito da crescenti pressioni in senso riformista (soprattutto fra intellettuali e studenti) e da una forte ripresa dell'autonomismo slovacco. Ad essere messi in discussione, insomma, molti dei granitici principi basilari del marxismo-leninismo imposto da Mosca nel 1948 dopo la Seconda Guerra Mondiale e l'uccisione del primo ministro democratico Jan Masaryk.
Tra i pilastri che rischiavano di crollare il ruolo guida dello stesso partito comunista, l'economia centralizzata basata sui piani quinquennali, l'occupazione della società da parte delle forze di ispirazione marxista. Ad essere chiari, Dubcek fin dall'inizio lavorò per rassicurare il Cremlino: cosciente che la prospettiva di una finlandizzazione era ciò che aveva decretato l'intervento sovietico in Ungheria nel '56, scelse volutamente una definizione del nuovo corso che escludesse categoricamente un ripensamento della posizione di Praga dal punto di vista dottrinale e, soprattutto, internazionale.
L'appartenenza al Patto di Varsavia sarebbe rimasto il cardine della politica estera, il socialismo riveduto e corretto avrebbe sostituito lo stalinismo ancora imperante nella periferia dell'Impero Sovietico.
La dottrina Brezhnev e l'invasione sovietica
Fossero stati i tempi di Mikhail Gorbaciov, magari sarebbe bastato. Ma il segretario del Pcus si chiamava Leonid Brezhnev, ed era l'uomo che insieme alla vecchia guardia del partito aveva costretto all'esilio in Crimea Nikita Khrusciov. La sua politica era più o meno questa: nessuna concessione su nessun punto, altrimenti il sistema inizia a crollare. A rendere forte la sua intransigenza anche la presenza, all'interno del partito comunista cecoslovacco, di un'ala conservatrice che mal digeriva il nuovo corso.
Si arriva così, il 21 agosto 1968, all'invasione del Paese da parte dei carrarmati sovietici. I dirigenti cecoslovacchi furono costretti a bloccare il processo riformatore, progressivamente indeboliti e infine sostituiti da una nuova leadership più gradita a Mosca. Affermerà nel novembre successivo lo stesso Brezhnev: "Quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti".
Era la giustificazione ideologica dell'intervento, una glossa a pie' di pagina a "Il diritto dei popoli all'autodeterminazione", saggio scritto da Lenin nel lontano 1904. Per gli storici diverrà la Dottrina Brezhnev, quella della sovranità limitata dei paesi del Socialismo Reale. Reale, sia chiaro, e non dal Volto Umano.
La guardia forestale che tornò a Praga
Nel 1969 lo stesso Alexander Dubcek deve lasciare la segreteria del partito comunista cecoslovacco per subire serie di rapide retrocessioni: prima presidente dell' Assemblea federale cecoslovacca, poi ambasciatore in Turchia, infine funzionario del Dipartimento forestale della Slovacchia.
Triste fine per un comunista di autentica fede e stirpe: da bambino aveva seguito la famiglia nella repubblica sovietica del Kirghizistan dove il padre aveva voluto trasferirsi all' inizio degli anni Trenta per dare il suo contributo alla costruzione dello Stato socialista. Rientrato in patria nel 1938 si era iscritto al partito, allora illegale, aveva partecipato alla Resistenza contro i nazisti, aveva fatto una brillante carriera ed era tornato in Urss per laurearsi cum laude nella scuola del Pcus a Mosca.
La sua svolta riformista aveva ottenuto il più ampio consenso popolare. Nei giorni terribili dell'invasione, i cechi cambiarono sui cartelli stradali il nome di molti villaggi in Dubcekovo (paese di Dubcek) e riuscirono a confondere le idee delle forze sovietiche. Ciononostante, Dubcek fu trasportato a Mosca, duramente redarguito e costretto ad accettare lo stato d'occupazione.
Dimmi chi sono quegli uomini stanchidi chinare la testa e tirare avanti.
Gli fu permesso di restare alla testa del partito perché la dirigenza sovietica voleva costringerlo a recitare pubblicamente la parte del reo confesso e penitente. Poi l'esilio interno nelle foreste attorno alla natia Bratislava. Durò 30 anni esatti, fino all'autunno del fatidico 1989, quando ormai invecchiato - ma non aveva molto l'idea del disilluso - apparve, sorridente e commosso, a un balcone di piazza San Venceslao, accanto a Vaclav Havel.
Il vecchio politico ed il giovane intellettuale destinato alla politica: i due volti del paese centroeuropeo. Di fronte a quel milione di persone lui seppe solo mimare un gesto, in continuazione, come se solo quello bastasse a cancellare tutto il passato: un abbraccio, ripetuto e ripetuto e ripetuto ancora, come se ne avesse voluto darne, uno per uno, a tutti quanti.
Qualche giorno dopo, festeggiato e applaudito come un precursore, fu eletto alla presidenza del Parlamento. Visse ancora tre anni durante i quali ricevette, con altri riconoscimenti, una laurea honoris causa dell' Università di Bologna. Morì nel novembre del 1992, dopo un grave incidente automobilistico. Cinque mesi prima la sua Slovacchia si era separata dai cechi e aveva proclamato la propria indipendenza. Ma anche la divisione in due del Paese, seppure mantenendo una forma di stato federale, era nel programma dei riformatori del 1968.
Praga, Italia
Il 1956, con i fatti di Ungheria, era stato il primo grande trauma della storia del Pci. Dopo l'intervento in Cecoslovacchia delle truppe del Patto di Varsavia, molti guardarono verso il Partito comunista italiano nella speranza di cogliere qualche utile segnale. Ma il Pci sembrava essere altrettanto esitante. Luigi Longo , segretario del partito, espresse dissenso e riprovazione. Ma dopo un difficile dibattito interno, il partito finì per adottare una linea equidistante fra il riformismo di Alexander Dubcek e l'ortodossia sovietica.
Particolarmente equidistante fu Pietro Ingrao. In generale tra i due Sessantotto - quello delle barricate di Parigi e quello di Praga - gli intellettuali impegnati a sinistra non hanno dubbi. Parigi ha indicato, anche se in modi confusi e pasticciati, nuovi modelli rivoluzionari: il Vietnam, Cuba, soprattutto la Cina comunista. Ma liquidare il dibattito interno al Pci come una silenziosa e pilatesca alzata di spalle sarebbe un controsenso.
Nel febbraio 1969, infatti, il XII Congresso del partito affianca all'anziano segretario la stella nascente di una nuova generazione. Si chiama Luigi Berlinguer, che succederà a Longo, avvierà quella fase passata sui libri di storia come Eurocomunismo (una terza via tra la socialdemocrazia e il Socialismo reale), che tanto preoccupò i comunisti sovietici.
Ed infine enunciò Lo Strappo: "L'Urss ha esaurito la sua forza propulsiva". Ed ora anche un comunista italiano come lui poteva dire a gran voce di sentirsi più al sicuro sotto l'ombrello protettivo della Nato che non nel Patto di Varsavia. Bye bye, Lenin. la marcia del Pci attraverso le istituzioni, iniziata tyra mille dubbi con la Svolta di Salerno, era ormai conclusa. Grazie anche a Dubcek e ad un ragazzo chiamato Jan Palach.
Il ragazzo con gli appunti nello zaino
L'occupazione sovietica durò di fatto fino al 1989 (il ritiro ufficiale dei carrarmati è del febbraio 1990). La resistenza, destinata a prendere la via dei teatri e della letteratura altrettanto. Intanto però i dissidenti avevano trovato un emblema, un martire. Un giovane studente di filosofia che amava girare con uno zaino pieno di appunti e considerazioni.
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan Palach si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Rimase lucido durante i tre giorni di agonia. Ai medici disse d'aver preso a modello i monaci buddhisti che facevano altrettanto per protestare contro la Guerra in Vietnam. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono 600.000 persone, provenienti da tutto il Paese.
La lapide che lo ricorda, nel luogo del suicidio, si trova ancora adesso a Piazza San Venceslao. A pochi metri dal balcone dove Dubcek si affacciò una sera del fatidico 1989. In Italia quell'estremo gesto di protesta (seguito da altri sette suicidi di altrettanti amici di Palach) venne ricordato da una bella canzone di Guccini. Si legge nel testo: "Dimmi chi sono quegli uomini stanchi / di chinare la testa e tirare avanti". Le radici della democrazia.