Gli Stati Uniti si ritirano dall’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite il cui scopo è “promuovere pace e sicurezza attraverso la collaborazione scientifica” e di cui fanno parte quasi 200 membri, perché ritenuta prevenuta nei confronti di Israele. La discordia ha origini antiche, da quando nel 2011 l’organizzazione votò per l’ammissione della Palestina come Paese membro, anticipando la decisione dell’Assemblea Generale dell’Onu di ammetterla come membro osservatore, presa nel 2012.
Washington era già fuori - di fatto - dal 2013
Gli Stati Uniti avevano già perso il diritto di voto all’Unesco nel 2013, a due anni dalla decisione di sospendere il pagamento della loro quota di partecipazione, proprio in contrasto con l’ammissione della Palestina come stato membro, come riportato dal Guardian. “La scelta dell’amministrazione Trump però approfondisce lo scontro, e viene interpretata come una critica dell’intero sistema Onu”, scrive la Stampa.
Come ricostruito dal Messaggero, “è dal 2011, quando la Palestina venne riconosciuta come membro a pieno titolo dell'organizzazione, che gli Usa hanno smesso di finanziarla pur mantenendo un ufficio nel quartier generale di Parigi e un'influenza dietro le quinte sulle sue politiche. L'odierna decisione entrerà in vigore il 31 dicembre 2018. Gli Stati Uniti - ha precisato il Dipartimento di Stato - intendono diventare in seguito un osservatore permanente della missione per ‘contribuire alle visioni, prospettive e competenze americane su alcune delle importanti questioni affrontate dall'organizzazione inclusa la tutela del patrimonio dell'umanità, la difesa della libertà di stampa e la promozione della collaborazione scientifica e dell'educazione’. A stretto giro, anche il premier Benyamin Netanyahu ha dato istruzioni di ‘preparare l'uscita di Israele dall' Unesco in parallelo con gli Usa’. Netanyahu ha poi reso omaggio alla scelta del presidente americano.” Per Netanyahu la decisione di Trump è “coraggiosa e morale”, che accusa l'Unesco di essere diventata un teatro dell'assurdo nel quale la storia viene “distorta anziché preservata”.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso
“Secondo fonti citate dall’agenzia Ap, la decisione è stata presa in seguito alle recenti risoluzioni dell’Unesco che hanno condannato Israele e gli insediamenti nei territori occupati in Cisgiordania, risoluzioni che Washington considera anti-israeliane”, scrive il Sole 24 Ore. “Il direttore generale dell’organizzazione, Irina Bokova, in risposta, ha espresso il proprio rammarico e dichiarato che “l’universalità è cruciale alla missione dell’Unesco di rafforzare pace e sicurezza davanti a odio e violenza, in difesa dei diritti e della dignità umana”. Per il Cremlino, la decisione americana è ‘una notizia triste’.
"This is a loss to @UNESCO.
— United Nations (@UN) October 13, 2017
This is a loss to the UN family.
This is a loss for multilateralism."
-@IrinaBokova: https://t.co/FCSURiqoA1 https://t.co/NhkoRdIq74
La Stampa ricorda che “Gli Stati Uniti da sempre accusano il Palazzo di Vetro di avere un pregiudizio contro Israele, favorito anche dal fatto che il gruppo dei Paesi musulmani è il più ampio all’interno dell’organizzazione. Questa frizione esiste in quasi tutti gli organismi dell’Onu, dall’Assemblea Generale al Consiglio per i diritti umani. L’Unesco però è diventata il punto di scontro perché è andata oltre tutte le altre agenzie, accettando la richiesta della Palestina di essere ammessa come Stato membro a tutti gli effetti, dopo che il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, si era convinto che i negoziati di pace con Israele fossero finiti.”
L'ennesimo strappo in un lungo tira e molla
L’uscita formale degli Stati Uniti dall’Unesco è prevista per la fine del 2018. E secondo la Stampa, “il messaggio di ‘rottura’ ancora con una volta con gli alleati anzitutto europei, appare netto. Un messaggio che rafforza le divisioni già affiorate con lo strappo sull’accordo di Parigi sul clima come sull’intesa internazionale sul nucleare con l’Iran. Trump potrebbe decertificare fin da oggi quel patto in nome della necessità di indurire le condizioni nei confronti di Teheran - accusata di destabilizzare la regione e fomentare il terrorismo - dopo averlo attaccato come ‘imbarazzante’ e il ‘peggiore mai firmato’. Aprendo così una nuova fase di grande incertezza, con Congresso e amministrazione che avranno 60 giorni per rifinire e calibrare la nuova strategia.”