Forte sul piano internazionale, più esitante nelle riforme interne. La Cina si avvia verso il diciannovesimo Congresso del Partito Comunista tra grandi iniziative e lente riforme, che hanno alimentato i dubbi degli osservatori negli ultimi anni. Se la proiezione all’estero di Pechino è aumentata soprattutto con l’iniziativa Belt and Road di sviluppo infrastrutturale tra Asia, Africa ed Europa, sul piano interno rimangono ancora diverse domande in attesa di risposta, in particolare i temi delle riforme economiche e delle aperture del sistema.
La figura del presidente cinese, Xi Jinping, ricorda oggi The Economist, che mette Xi in copertina, è emersa sullo scenario globale mentre quella di Trump e degli Stati Uniti appaiono in ritirata. Già pochi giorni prima dell’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, Xi aveva parlato davanti alla platea del World Economic Forum di Davos a difesa della globalizzazione. La Cina ha mandato messaggi chiari anche a favore del libero scambio e del rispetto degli accordi di Parigi, nei mesi successivi, in contrasto con i venti protezionistici provenienti da Washington e con il ritiro dagli accordi sul Clima annunciato da Trump a giugno scorso. Sul piano interno le cose, però, sembrano andare diversamente, almeno secondo il giudizio di alcuni tra gli osservatori più attenti della scena cinese.
Il rapporto tra lo Stato e l'economia
Se sul piano globale, la Cina punta a emergere come un fattore rassicurante tra le incertezze e come potenza responsabile e affidabile, sul piano interno rimangono ancora diversi nodi da sciogliere a pochi giorni dall’appuntamento politico più importante dei prossimi cinque anni. Il tema che emerge di più tra gli osservatori e gli esperti è quello delle riforme economiche. In particolare, se le riforme annunciate quattro anni fa, in occasione del terzo plenum del Comitato Centrale del partito, daranno al mercato realmente un “ruolo decisivo”, come si augurano ad tempo le aziende straniere presenti in Cina, o se le promesse di cambiamento rimarranno disattese. L’agenda economica del Pcc verrà trattata solo il prossimo anno, nel corso del terzo plenum del diciannovesimo Congresso, ma alcuni segnali sulla direzione che le riforme prenderanno potranno emergere già nei prossimi giorni. Difficile, però, aspettarsi grandi cambiamenti dall’appuntamento politico al via settimana prossima.
Molto dipenderà dall’equilibrio che la nuova leadership del Pcc intenderà creare tra il partito e le forze del mercato, e su questo punto, spiega Yukon Huang, senior fellow al Carnegie Endowment e in passato country director per la Banca Mondiale in Cina, emerge una contraddizione, ovvero quella tra il “ruolo decisivo” del mercato nell’allocazione delle risorse, e il “ruolo di guida” che lo Stato continua ad avere nell’economia, entrambi riaffermati nel terzo plenum. “Questa ambiguità ha oscurato la formulazione e l’attuazione delle riforme da allora”, scrive sulla piattaforma on line di analisi East Asia Forum, e ha portato a tre interrogativi da affrontare in futuro:
- fare i conti con una possibile crisi finanziaria (e con il ruolo in essa delle imprese di Stato);
- favorire un più efficiente processo di urbanizzazione;
- affrontare i fattori che portano alla corruzione.
La Cina, spiega Yukon Huang, “è differente, non perché sia immune da pressioni finanziarie, ma perché la struttura del suo sistema economico e le interazioni al suo interno sono diverse da quelle di altri Paesi”. Scindere completamente il ruolo dello Stato da quello del mercato è più difficile di quanto sembri. “Gli esiti impressionanti dell’economia cinese sono il risultato di un affidamento gradualmente maggiore alle forze del mercato per modellare i risultati economici, anche se con lo Stato che fissa le priorità. Ora, la questione - conclude Huang - è se la nuova leadership potrà trovare il giusto equilibrio tra permettere al mercato di avere il ruolo decisivo immaginato nel terzo plenum, mantenendo per il Pcc un ruolo di guida” nello sviluppo economico.
Una leadership rafforzata, con il rischio di un partito debole
Su posizioni ancora più dire è David Shambaugh, direttore del China Policy Program presso la George Washington University. “Xi è il più illiberale leader della Cina dai tempi di Mao”, scrive Shambaugh sulle pagine del South China Morning Post. Una considerazione che deriva dal potere accumulato all’interno del partito e dell’esercito, dalla personalizzazione del potere da parte di Xi, che ha spazzato via le fazioni avverse, legate ai suoi due predecessori, Jiang Zemin e Hu Jintao, e dall’incedere della campagna contro la corruzione all’interno del partito, che ha colpito più di 1,3 milioni di funzionari nei primi cinque anni di attività, stando agli ultimi dati, senza risparmiare alcuni tra i membri più in vista del Pcc. Tutto questo non è avvenuto senza che il partito ne pagasse un prezzo.
“Paradossalmente, il tentativo di Xi di rafforzare il partito, può averlo in realtà, danneggiato ulteriormente come istituzione”, è il commento di Shambaugh. La contraddizione che il Pcc deve risolvere nel prossimo futuro riguarda lo scollamento tra le linee intraprese in politica estera e in politica interna. “Il rigido controllo politico dl partito all’interno e la sua esitazione sulle riforme economiche si affiancano a una Cina molto sicura di sé sullo scenario globale”. In sostanza, spiega Shambaugh, nei primi cinque anni di Xi le debolezze si sono manifestate soprattutto sul piano interno, mentre sulle linee di politica estera si è manifestata una leadership sicura di sé. Dopo il Congresso la Cina riuscirà a mostrare la stessa fiducia anche nelle linee di politica interna? “Meglio non scommetterci sopra”, è il commento finale di Shambaugh.
I riferimenti per il futuro: “I quattro da evitare e i tre da imitare”
Qualunque sia l’esito del prossimo Congresso, secondo Damien Ma, fellow e associate director presso il Paulson Institute, e lettore aggiunto alla Kellogg School of Management presso la Northwestern University, le linee politiche che il Pcc seguirà in futuro si snoderanno attorno ad alcuni punti cardine che definisce con la formula “i quattro da evitare e tre da imitare”. I quattro da evitare sono:
- evitare che il Pcc faccia la fine del Partito Comunista dell’Unione Sovietica;
- evitare il modello democratico dell’India;
- evitare di cadere in una stagnazione economica come quella del Giappone;
- evitare un modello di urbanizzazione simile a quello di molti Paesi sudamericani.
I tre da imitare, invece, sono:
- il dinamismo economico e la potenza militare degli Stati Uniti;
- il modello di Stato sociale europeo;
- il modello di governance autoritario e competente di Singapore.
“In altre parole”, spiega Ma sulla piattaforma on line Macropolo gestita dal Paulson Institute dell’università di Chicago, “prendere in prestito qualcosa qua e là, evitare ogni modello che possa destabilizzare il ruolo del Pcc, e limitare gli elementi delle esperienze apprese attraverso i filtri ideologici del Pcc”. Negli ultimi cinque anni, spiega Ma, molte volte il Pcc ha voluto sottolineare la distanza con i modelli occidentali, ma questo non significa non osservare e magari, appunto, prendere in prestito le best practices, adattandole al contesto cinese. Qualunque sia l’esito del Congresso, conclude lo studioso, questi precetti “forniscono una base logica al partito per le azioni da intraprendere nel suo stesso interesse e per la sua auto-conservazione”.
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